Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Archivi del mese: settembre 2013

Nella visione cristiana, ogni realtà umana, grazie all’Incarnazione, è abbracciata ed elevata. A questa logica non si sottrae nemmeno la sfera politica che tanto ha ricevuto dall’intelligenza della fede e dalla comprensione del mondo che il cristianesimo ha.

A questi temi è dedicata l’ultima fatica letteraria di Massimo Borghesi, docente ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia, che ha per titolo “Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’epoca costantiniana” ed è edita da Marietti.

L’autore affronta il rapporto fra religione e politica dando al suo saggio un taglio storico e filosofico. Egli inizia col descrivere la situazione di sostanziale connubio fra politica e religione (pagana) nell’antico impero romano, dove la figura dell’imperatore deteneva allo stesso tempo il potere politico e quello religioso.

Contrariamente a quanto sostiene il luogo comune, il docente ritiene che la religione politeista romana non era affatto tollerante verso le altre religioni, almeno nel modo in cui oggi intendiamo questa parola.

La “tolleranza” romana era dettata dalla logica della “pax deorum” ovvero dall’adorazione di tutti gli dei del cielo al fine di ottenere da essi pace e prosperità per l’Impero.

La religione pagana poteva tollerare altre divinità straniere, che potevano essere incluse nel Pantheon romano, ma si scontrò con il monoteismo cristiano che quel Pantheon non ammetteva.

Ma il cristianesimo, soprattutto, non riconosceva all’imperatore alcun carattere divino. In ciò i cristiani portarono una novità assoluta che sarà determinante per il futuro della storia umana: la desacralizzazione del potere politico.

Questo nuovo modo di vedere il rapporto religione-politica mandò in tilt il mondo antico e causò la persecuzione dei cristiani almeno fino all’avvento di Costantino.

Nei primi tre secoli troviamo numerosi autori cristiani che si battono per la “libertà religiosa” come Tertulliano e Lattanzio. Nelle loro opere esortano i pagani a rispettare ogni culto, perché “non è della natura della religione il forzare la religione stessa”.

Quando il cristianesimo acquisisce una maggiore importanza nel contesto culturale romano, è un autore cristiano convertito dal paganesimo come Firmico Materno a teorizzare per la prima volta l’uso della forza per estirpare il paganesimo, una posizione questa che si pone in forte contraddizione con quanto precedentemente insegnato da illustri uomini di Chiesa.

Si arriva così al cuore del problema che l’autore vuole prendere in considerazione: la posizione di Agostino e il suo influsso nei secoli successivi. Il pensiero del Vescovo di Ippona sul rapporto fra religione, politica e uso della forza si ricava dall’epistolario e dal De civitate Dei. Fino all’anno 405, Agostino, in accordo con quanto insegnato da molti cristiani, è contrario all’uso della forza per risolvere le questioni religiose. Agostino cambierà posizione dopo le repressive misure adottate dall’Imperatore Onorio contro i donatisti, misure senza le quali difficilmente si sarebbe ricomposto lo scisma. Questa svolta, palese se si legge il suo epistolario successivo all’anno 405, data l’influenza nella storia dell’occidente cristiano – nota l’autore – sarà gravida di conseguenze.

Quando tuttavia l’Ipponate fra il 412 e il 426 compone il De civitate Dei, il suo spirito è ancora permeato dalla visione tollerante che è stata tipica dei cristiani dei primi tre secoli, al punto che, continuando a esprimersi attraverso le categorie proprie di una “politica desacralizzata”, Agostino affermerà che l’accusa rivolta ai cristiani di aver reso vulnerabile Roma per non aver venerato i suoi dei è del tutto priva di fondamento.

Secondo Borghesi, per tutto il medio evo il De civitate Dei è stato letto alla luce dell’epistolario, e non, come sarebbe stato più logico fare alla luce della maturazione dell’ipponate, il contrario. Da questa lettura deriva quello che l’autore chiama “agostinismo medioevale”, cioè un sistema di idee che ha contribuito a fare avvicinare di nuovo, e in maniera eccessiva, la politica e la religione.

Un revival della antica visione pagana, sostenuta anche dal fatto che le mistiche Civitas Dei (animata dall’amore di Dio) e Civitas mundi (animata dall’amore egoistico) sono state rispettivamente ridotte nella Chiesa e nello Stato. Il carattere mistico di queste due Civitates fa sì che la Civitas Dei non si potrà mai realizzare come Civitas terrena.

Agostino insomma, con la sua visione, spazza via ogni possibilità di “teologia politica”, cioè ogni teologizzazione della realtà politica. Agostino invece ha una “teologia della politica”, cioè una visione cristiana di ciò che riguarda la sfera politica.

Di ciò fu convinto il teologo e scrittore cattolico Erik Peterson autore nel 1935 de “Il monoteismo come problema politico”, il saggio che voleva contestare l’espressione “teologia polita”, coniata e adoperata da Carl Schmitt come titolo di un suo libro del 1922. Mentre Peterson nega qualsiasi contiguità fra teologia e politica, per Schmitt ogni sistema politico è una trasposizione in termini laici di una visione religiosa.

Nel libro Borghesi traccia i profili di altri autori recenti che sono stati influenzati, chi in un modo, chi in un altro, dalle idee di Agostino, Peterson e Schmitt.

Un libro dagli alti contenuti, ma fruibile da chiunque fosse interessato all’argomento. Ogni tesi sostenuta nel saggio è ampiamente documentata da un serio apparato critico.

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ROMA – In una delle sue apparizioni a suor Lucia dos Santos, la Madonna ha chiesto di intraprendere un cammino di fede e di conversione dedicando i primi cinque sabati di cinque mesi consecutivi alla meditazione dei misteri della vita di Gesù e di Maria, alla celebrazione dei sacramenti dell’Eucaristia e della Penitenza e alla preghiera del rosario. Il tutto compendiato in un atto di consacrazione al suo Cuore. Questo camino è favorito nella città di Roma dalla “Confraternita di San Jacopo di Compostella” che organizza ogni primo sabato del mese un pellegrinaggio per le vie della città intitolato “La corona di Maria”. Per conoscere questa realtà abbiamo intervistato don Paolo Asolan che, oltre ad essere membro della Confraternita, è docente incaricato di Teologia Pastorale presso la Pontificia Università Lateranense.

1) La pratica del pellegrinaggio è molto antica. Ha ancora senso per i fedeli del XXI secolo?

Basterebbe pensare alle cifre di quanti si recano in pellegrinaggio ai vari santuari sparsi nel mondo o a quelli, che più ci sono vicini quanto a sensibilità, che percorrono le vie di pellegrinaggio a piedi, per arrivare qui a Roma o alla tomba di san Giacomo a Compostella, ad Assisi, o perfino a Gerusalemme. Il pellegrinaggio, specie quello a piedi, intercetta un bisogno diffuso: quello di mettersi a cercare con tutto se stessi – anima e corpo, non solo con la testa – il senso stesso del vivere e dell’andare, che spesso non è offerto neppure dalla Chiesa, vissuta ad intra e ad extra più come un sottosistema etico autoreferenziale che come un’offerta di vita nuova e buona, possibile per la risurrezione di Gesù e l’opera dello Spirito Santo. Papa Benedetto, inaugurando l’anno della fede, citò questi cammini di pellegrinaggio ponendoli in connessione proprio con il mistero della fede, affermando: «Oggi più che mai evangelizzare vuol dire testimoniare una vita nuova, trasformata da Dio, e così indicare la strada. La prima Lettura ci ha parlato della sapienza del viaggiatore (cfr. Sir 34,9-13): il viaggio è metafora della vita, e il sapiente viaggiatore è colui che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni. Come mai tante persone oggi sentono il bisogno di fare questi cammini? Non è forse perché qui trovano, o almeno intuiscono il senso del nostro essere al mondo? Ecco allora come possiamo raffigurare questo Anno della fede: unpellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale» (Omelia per la Santa Messa di apertura dell’Anno della Fede). Credo che questa importante affermazione del Papa risponda bene alla domanda.

2) Quali sono le attività principali della Confraternita della quale fa parte?

I fini principali sono la crescita dell’amicizia e del legame con l’apostolo Giacomo, nati durante il pellegrinaggio alla sua tomba e continuati a casa nella promozione del culto a lui dedicato e nella fraternità con gli altri pellegrini; quindi la cura del proprio cammino di fede nella Chiesa, all’interno delle rispettive comunità cristiane; l’esercizio della carità nella forma dell’accoglienza concreta dei pellegrini (gratuita, semplice e offerta riconoscendo nel pellegrino Gesù stesso che chiede ospitalità) e più in generale nella promozione del pellegrinaggio, sia dal punto di vista culturale (contribuendo a sviluppare una vera e propria cultura del pellegrinaggio) che tecnica (percorrendo le vie, scrivendo guide, aprendo spedali per l’accoglienza lungo le stesse vie).

Si tratta, cioè, di rendere possibile ad altri di ricevere la stessa grazia che abbiamo ricevuto noi pellegrinando, e che ha trasformato la nostra esistenza, dandole una forma molto particolare. È un dono che intendiamo mettere a servizio della fede e della vita della Chiesa: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.

3) Quando e come è nata l’idea di un pellegrinaggio urbano?

In realtà noi percorriamo diversi pellegrinaggi urbani, ma per quel che riguarda la Corona di Maria, essa è nata dal fatto che in pellegrinaggio si prega con il rosario, ideale sia perché scandisce bene i passi, sia perché è la preghiera dei poveri e dei mendicanti: non necessita di libri o di luoghi particolari per essere fatta. Tornati a casa, spontaneamente, qualcuno di noi si recava presso qualche chiesa pregando così, rivivendo ritmi e stile conosciuti sul Cammino. A questo si sono aggiunti l’accresciuta consapevolezza – sbocciata quando, percorrendo la Francigena, siamo arrivati a Roma da pellegrini, e non solo da abitanti della città – di vivere realmente in una città santa, una città santuario, incredibilmente ricca di memorie legate alla fede e alla presenza di testimoni della fede; e la costatazione che Roma è una città mariana, dove la presenza della Madonna è evidente e discreta allo stesso tempo, bisognosa di essere cercata.

A questo si è aggiunto il desiderio di rispondere alle richieste fatte dalla Vergine a Fatima, riguardanti il suo Cuore Immacolato. Il tema del cuore in questo senso è cruciale: non si tratta soltanto di mettersi in movimento fisico, di fare una bella passeggiata, ma di entrare in profondità dentro il cuore. Nel nostro, come in quello di Maria, abita lo Spirito santo che grida “Abbà, Padre!”: è Lui, vivente in noi, che rende possibile quello che altrimenti resterebbe umanamente impossibile. Questa azione dello Spirito la riconosciamo anche per la gioia, la leggerezza e la libertà che il pellegrinaggio regala a chi lo compie.

 

4) Come si svolge il pellegrinaggio urbano?

Parlo sempre della Corona. Ci sono due itinerari: uno “classico” e uno sperimentato quest’anno, molto più breve. Il classico consiste in un anello di cinquanta chiese del centro dedicate alla Madonna, davanti alle quali si recita un’Ave Maria. In cinque di esse (diverse di volta in volta) entriamo e, fatta una sommaria (ma non superficiale), visita artistica della chiesa, meditiamo su uno dei misteri del giorno. Alla terrazza del Pincio e al Giardino degli aranci ci sono anche delle meditazioni sul senso del rosario e sul senso della consacrazione. Questo pellegrinaggio dura dal mattino a pomeriggio inoltrato, e si conclude con la Santa Messa.

Quello più breve inanella cinque chiese soltanto, dedicando un po’ più di tempo alle meditazioni o alla preghiera silenziosa, e si conclude sempre con la Messa.

A Giugno, luglio e agosto, invece, considerato il caldo diurno, la Corona si svolge a partire dal tardo pomeriggio, in genere iniziando con la Messa alla Madonna dell’Archetto (laprima immagine di Maria che nel 1796 “mosse gli occhi”) e toccando alcune delle madonnelle interessate dallo stesso prodigio. In questi mesi le meditazioni sono su brani del vangelo dove si parla dello sguardo di Gesù.

Siamo pellegrini compostellani, per cui la modalità di compimento del percorso a piedi è la stessa che abbiamo imparato sul Cammino di Santiago: non, quindi, un procedere necessariamente compatti in gruppo, così che sia rispettata la libertà di passo, di silenzio, di preghiera di ognuno. Insieme preghiamo il Rosario, ripetutamente, attraversando i suoi misteri, come un pianto, come un grido – come una gioia che non è nostra e che ci visita improvvisa.

Pochi o tanti che siamo – liberi grazie a Dio dall’ossessione per il numero esibito, mondana e anche un po’ triviale unità di misura del successo di ciò che si fa – rinnoviamo la grazia di vivere in una città santa e sperimentiamo qualcosa della bellezza della fede.

5) Quanto le bellezze artistiche della città di Roma possono aiutare i fedeli ad avvicinarsi a Maria e a Gesù?

Senza essere blasfemo, bisognerebbe dire che anche della bellezza di Roma nunquam satis. Vedere senza fretta e senza l’affanno del traffico i mirabilia dell’Urbe ci rende per forza meno bestie: ciò che si intuisce attraverso la bellezza dell’arte trasfigura la materia e la corporeità, apre all’invisibile. Il percorso classico mette insieme i luoghi più belli del centro, per cui anche dal punto di vista turistico si tratta di un giro impagabile. Ma non è il compiacimento del turista che ci interessa, quanto il cammino del pellegrino. Vorremmo descrivere non soltanto le forme interessanti dei quadri o delle chiese, quel che si vede a occhio nudo e che può essere spiegato tecnicamente o storicamente, ma il contenuto che viene rappresentato e celebrato dall’arte e dal genio degli artisti. Come cioè il Mistero può essere reso percepibile dai sensi, i quali lo riconoscono come il necessario che cercano e di cui hanno fame e sete. Questo avviene spesso anche raccontando le vite dei santi presenti nelle chiese: irradiano una bellezza la quale suscita come una nostalgia che brucia dentro, un presentimento di verità che affascina e cattura. Lo abbiamo costato soprattutto in questo Anno della fede, quando – terminata la Corona con la Messa – nel pomeriggio chi voleva continuava a pellegrinare alle basiliche dei santi intercessori del Canone Romano (Cecilia, Agnese, Clemente, Marcellino e Pietro, Giovanni e Paolo, …).

È una bellezza non meno persuasiva, che incanta allo stesso modo.

6) Ha avuto modo di raccogliere in questo tempo qualche testimonianza particolarmente toccante da parte di alcuni pellegrini?

Quando possiamo, al termine dell’omelia della Messa, lasciamo qualche minuto per le risonanze della giornata: invitiamo i pellegrini a condividere il passo del vangelo o l’intuizione che li hanno colpiti durante il cammino. È sempre sorprendente ascoltare queste brevi riflessioni e verificare come, al di là dei contenuti che possiamo aver preparato noi, il Signore effettivamente parli e cammini con noi. O, quantomeno, come l’uscire dai ritmi soliti, ordinari, e il rimettersi a camminare, crei delle condizioni di ascolto e di attenzioni affatto diverse da quanto accade mentre viviamo la solita vita. E di come siamo più docili ad accogliere e a far spazio. Direi che tra le cose che colpiscono di più sono le intenzioni di preghiera che vengono condivise, le quali spesso riguardano situazioni difficilissime, che la preghiera del pellegrinaggio aiuta a vedere sotto un’altra luce. Non come condanne e pesi gravosi soltanto, ma come occasioni di conversione nel profondo. Illuminate sempre dalla vita della Madonna nonché, come dicevo, dalla gioia e dalla libertà dello Spirito: la libertà di chi si sente amato, accompagnato e seguito con amore. In questo io vedo all’opera molto del ministero di intercessione della Madonna.

7) Una pratica antica che si avvale anche di linguaggi moderni. È vero che è possibile avvicinare questa realtà anche attraverso internet e facebook?

In realtà no, il pellegrinaggio per sua natura non ha e non può avere surrogati nei social network. Abbiamo però dei siti di servizio, grazie ai quali comunichiamo l’itinerario mensile, le informazioni necessarie da sapere e, in genere, tutto quel che riguarda il mondo del pellegrinaggio a piedi in Roma.

Il sito della Confraternita è www.pellegriniaroma.it, da lì si può risalire alla pagina Facebook e anche al contatto di Twitter.

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Come afferma il n. 2070 del Catechismo della Chiesa Cattolica “il Decalogo contiene un’espressione privilegiata della legge naturale”. Questo vuol dire che il decalogo ci viene a ricordare ciò che già è iscritto nel cuore dell’uomo: non è una legge troppo in alto, né troppo lontana, ma alberga nell’intimo dell’uomo (cfr. Dt 30,11-14).

Anche se sono così importanti, a volte la memoria gioca brutti scherzi e non riusciamo ad enumerarli tutti… Figuriamoci poi se ci chiedono di ripeterli in fila! A venire incontro a questa nostra difficoltà è ancora una volta un’opera d’arte che ci può aiutare a memorizzare i 10 comandamenti: si tratta del pannello di Lucas Cranach il Vecchio che rappresenta l’osservanza/inosservanza della legge. Il pittore tedesco ha realizzato nel 1516 quest’opera che faceva bella mostra di sé nella Camera di riunione della Corte del Municipio di Wittenberg.

I pannelli sono disposti su due file ognuna delle quali contiene 5 comandamenti. Partiamo dalla prima fila e volgiamo il nostro sguardo verso sinistra.

1) Non avrai altro Dio al di fuori di me: nella prima immagine Cranach ha rappresentato Dio che sta donando a Mosè le due tavole della legge. Mentre Mosè sta ricevendo i dieci comandamenti, due ebrei adorano il vitello d’oro (che qui però viene rappresentato come un idolo greco-romano).

2) Non pronunciare invano il nome di Dio: per illustrare questo comandamento, Cranach ha rappresentato la parabola del Pubblicano e del Fariseo. Entrambi si rivolgono a Dio, ma mentre il primo lo fa con estrema umiltà e retto timore, l’altro si serve di Dio per affermare se stesso e disprezzare gli altri uomini. Il Fariseo bestemmia non con delle parole, ma con la sua stessa vita, perché strumentalizza Dio.

3) Ricordati di santificare le feste: un angelo spinge moglie e marito ad entrare in chiesa.

4) Onora il padre e la madre: il primo dei comandamenti che parla dei nostri doveri verso gli uomini è rappresentato da un papà e da una mamma che stanno con i loro fanciulli.

5) Non uccidere: nell’ultimo riquadro della prima fila vediamo una creatura infernale di colore giallo (nella pittura spesso associato al male o all’invidia) istiga un uomo ad ucciderne un’altro steso a terra e vestito di rosso come il sangue che sta per versare.

6) Non commettere atti impuri: spostando la nostra attenzione sul primo riquadro della seconda fila notiamo che il maligno spinge un uomo a curiosare all’interno di una stanza nuziale.

7) Non rubare: istigato da un demone, un uomo vestito di rosso tenta di sottrarre un calice alla bella dama vestita di verde.

8) Non pronunciare falsa testimonianza: in un tribunale, al cospetto di un giudice che siede dietro un banco, compaiono due uomini quello a sinistra, spinto da un angelo, si appresta a dire la verità, mentre quello a destra, esortato dal diavolo, sta per mentire.

9) Non desiderare la donna d’altri: il tentatore spinge un uomo a corteggiare una donna mentre l’ignaro marito le dorme accanto.

10) Non desiderare la roba d’altri: un demone tenta un uomo che desidera rubare delle monete che si trovano su un tavolo

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ROMA – Al termine della presentazione del libro “Symbolum. Percorsi e approfondimenti sul Catechismo della Chiesa Cattolica” edito dalla Libreria Editrice Vaticana, abbiamo incontrato l’autrice, la Professoressa Maria Rosa Poggio, alla quale abbiamo rivolto qualche domanda.

Come è nata l’idea di questo libro? È stata un’iniziativa personale o è nata all’interno di una esperienza ecclesiale oppure è stata la chiesa a richiederle la compilazione di questo testo?

Mi è stata richiesta, vista la mia esperienza nel campo dell’insegnamento e  vista l’esigenza di rendere  fruibile il Catechismo della Chiesa Cattolica. È stato chiesto uno strumento che potesse essere ponte tra quell’immenso patrimonio che è il catechismo, ma che alle volte risulta essere un pochino complesso, anche nella consultazione, e i fedeli.  Mi è stato chiesto di poter rendere i contenti del Catechismo più fruibili attraverso dei percorsi di lettura, ma anche attraverso la spiegazione di alcune domande e alcune parole specifiche, che magari provengono dalla teologia e quindi possono risultare di più difficile comprensione.  Ho cercato di facilitare il tutto anche con delle domande che io ho chiamato “le domande più frequenti” che  sono quelle che il catechista  si sente sempre rivolgere. Inoltre è stato mio intento di rendere accessibile il Catechismo da un punto di vista pratico per gli insegnanti , per i catechisti, man anche per  le singola persone che si vogliono avvicinarsi al Catechismo. Questo mio lavoro comunque non vuole essere una sostituzione, ma, come ho già detto, un percorso di lettura di quel Catechismo ,quindi credo che chi leggerà il mio libro sentirà poi il bisogno di andare alla fonte.

A quale tipo di persone si rivolge in particolare il testo da lei scritto ?

Il testo è stato studiato per gli adulti, ma ho cercato sempre di tenere un linguaggio tale da poter intercettare un ampio pubblico, un linguaggio che potesse essere comprensibile anche da ragazzi di 14-15 anni.

Sfogliando il libro si nota una predilezione per l arte antica. Secondo lei, le espressioni artistiche del passato sono più idonee per la nuova evangelizzazione rispetto a quelle più moderne?

No. Penso che tutta l’arte sia ugualmente utilizzabile. Naturalmente credo anche che l’arte moderna alle volte sia molto difficile da leggere, perché necessita di una preparazione molto particolare e bisogna essere ben certi del significato che l’autore ha voluto attribuire alla sua opera.  Mentre è più semplice avere una preparazione nell’arte antica, o perché l’abbiamo vista già, o perché spesso  la persona ha già un occhio esercitato, per cui alcuni documenti  artistici del passato sono più facilmente accessibili per la definizione dell’immagine e per la loro semplicità rispetto all’arte moderna.  Non dobbiamo dimenticare che l’arte antica è un immenso patrimonio  e che abbiamo avuto l’intera bibbia raccontata dalle cattedrali. Certamente, l’arte moderna è importante, ma c’è tutto un bagaglio di espressioni artistiche precedenti  che non può essere buttato alle ortiche!

La via della bellezza è stata un tema caro a Papa Benedetto. Pensa che anche Papa Francesco batterà questa via o troverà altri modi per la nuova evangelizzazione?

Dipende dal significato che noi diamo alla parola bellezza.  Se intendiamo esclusivamente l’arte nella sua espressione umana come la musica, la pittura,  la scultura ecc. allora forse Papa Francesco cercherà un’altra strada. Ma questo non significa che abbandonerà la bellezza,  perché possiamo trovare la bellezza anche nel creato o in chi ha bisogno, una bellezza che il mondo non valorizza, ma che la fede ci invita a scorgere.

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ROMA – A margine della presentazione dei volumi “Symbolum” e “I want you” scritti da Maria Rosa Poggio abbiamo avuto il piacere di incontrare Sua Eccellenza Mons. Domenico Sigalini, Vescovo di  Palestrina e Assistente Nazionale dell’Azione Cattolica.

Eccellenza buonasera e grazie per la sua disponibilità. Sono passati 20 anni dall’uscita del Catechismo,  c è stato poi un compendio del catechismo e ora arriva “Symbolum”. Si sentiva il bisogno di aggiungere uno strumento come il libro che è stato appena presentato?

Secondo me sì, perché è stato elaborato il catechismo, si è fatto  il compendio, che è ancora più concentrato, ma mancava la parte didattica. Ai preti di per sé non serve, nemmeno ai vescovi , ma alla gente serve e vedo che questo strumento è fatto bene. È un buon strumento, non so quanti giovani riusciranno a farlo diventare un loro strumento, però nella scuola, per esempio, si potrebbe utilizzare da parte degli insegnanti, oppure in qualche realtà associativa di grande presa o ancora per un corso in preparazione al matrimonio di potrebbero prendere degli spunti da questo sussidio.

E come Assistente Nazionale dell’Azione Cattolica pensa che proporrà questo testo ai vari formatori?

Sì, sicuramente proporrò quello del “Symbolum”.  Invece per quanto riguarda “I Want you”, nell’Azione Cattolica abbiamo molti testi simili, però di questo mi interessa la particolare attenzione al tema della chiamata, anche perché  il Papa ci invita sempre più spesso ad  “uscire”, quindi anche per noi una lettura del vangelo a partire da questa prospettiva si impone come necessaria.

Durante la presentazione ha fatto un accenno allo spazio dei laici che secondo lei è carente nel libro ed ha invitato a colmare questo vuoto nella seconda edizione. Può tornare su questo argomento?

Il catechismo è molto strutturato e parla della Chiesa del Papa, dei vescovi, dei preti dei religiosi e dei laici. Invece  adesso cominciamo a dire ci sono i laici e poi il papa, ma sono tutti uguali. Occorre un modello diverso, che segua il Concilio. Ci vuole questa  mentalità, ci si sta lavorando e mi pare che l’Azione Cattolica sul tema della corresponsabilità dei laici ci stia mettendo la pelle.

Secondo l’autrice, senza nulla togliere all’arte contemporanea,  quella del passato è semplice ed immediata ed è particolarmente indicata per quella che chiamiamo nuova evangelizzazione. Lei è sulla stessa linea d’onda o pensa che anche un massiccio ricorso alle opere moderne sia utile?

L’arte contemporanea è difficile da capire, anche se c’è un bel novecento artistico in particolare quello francese. Ci sono delle buone espressioni pittoriche moderne che sono state favorite e raccolte da Paolo VI. Io sono figlio di un pittore, però mio padre era un impressionista e faceva quadri che si capivano e c’era l’emozione del colore. Quindi ho l’idea che si possa arrivare alla modernità,  però non in termini astratti e intellettualoidi, ma propositivi ed emotivi.

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La Cappella del Corporale del duomo si Orvieto venne costruita per custodire la preziosa reliquia del Miracolo di Bolsena. Tutta la cappella è stata affrescata fra il 1357 e il 1364 da Ugolino di Prete Ilario e può essere considerata un trattato di teologia eucaristica per immagini.

Molti affreschi si riferiscono a prefigurazioni veterotestamentarie dell’eucaristia e a miracoli eucaristici, come quello di Bolsena, accaduto 750 anni fa e rappresentato sulla parete destra della cappella. Proprio di quest’ultimo affresco vogliamo ora parlare. Ugolino di Prete Ilario ha impostato la narrazione del miracolo eucaristico di Bolsena, e dei fatti ad esso connessi, su tre registri: alto, medio e basso.

La storia viene raccontata per sequenze.Nella prima, in alto a sinistra, vediamo il miracolo vero e proprio. Il sacerdote boemo Pietro sta celebrando la messa nella chiesa di Santa Cristina a Bolsena. Egli sta consacrando il pane e il vino, riusciamo a capirlo anche dalla sua posizione curvata, richiesta ad ogni celebrante, sia come forma di rispetto verso Cristo che si rende presente, sia perché, come insegna Sant’Agostino, le parole raggiungono la materia e la fanno diventare sacramento. Pietro è rivolto verso l’altare e dà le spalle al popolo, come era in uso prima della riforma liturgica del Vaticano II. In questo momento, mentre egli è preso da un dubbio sulla presenza reale, dall’ostia stillano alcune gocce di sangue che vanno a macchiare il corporale.

La seconda sequenza si svolge ad Orvieto ed in essa si vede il sacerdote Pietro inginocchiato, in segno di rispetto e di gerarchica subordinazione, davanti a Papa Urbano IV. Il pontefice siede su un trono elevato, sul suo capo è posta la tiara, formata da una sola corona (col tempo si aggiungeranno le altre due fino a formare quella che oggi conosciamo). Il papa spalanca le mani in segno di stupore per quello che il sacerdote Pietro sta raccontando. Ad ascoltare l’incredibile racconto del sacerdote boemo c’è anche un gran numero di cardinali vestiti col tradizionale abito rosso porpora.

Nella terza sequenza, l’ultima del registro alto, il papa Urbano IV affida a Giacomo, Vescovo di Orvieto, il compito di indagare sulla veridicità del racconto di Pietro. Giacomo, come ogni vescovo, indossa la mitria.

A differenza del primo registro, gli altri due sottostanti si compongono di due sole sequenze. La prima sequenza del registro medio mostra il vescovo Giacomo mentre constata la veridicità del miracolo. Egli è stato condotto a Bolsena da Pietro, che appare inginocchiato davanti all’altare.

L’altra sequenza, che occupa uno spazio doppio rispetto alla prima, mostra l’arrivo della sacra reliquia nella città di Orvieto. Il vescovo Giacomo sta attraversando un ponte sul fiume Riochiaro e mostra al Papa il corporale macchiato di sangue. Il pontefice è inginocchiato e prega davanti alla reliquia; indossa i paramenti liturgici e sulle sue mani possiamo scorgere le chiroteche. Alle sue spalle, due membri della corte pontificia portano una croce astile, simbolo del potere spirituale, e il sinichio, una sorta di ombrellino che indica il potere temporale. Segue uno stuolo di cardinali, vescovi, religiosi e una gran folla di popolo accorsi per ammirare l’incredibile fatto.

Spostando la nostra attenzione sul registro basso vediamo la penultima sequenza. Urbano IV si affaccia dal palazzo papale di Orvieto e mostra al popolo il corporale. Nell’ultima sequenza, che chiude questo ciclo pittorico, vediamo san Tommaso d’Aquino che consegna al papa il testo dell’inno “Pange lingua gloriosi” scritto per onorare il mistero eucaristico.

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