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Catechesi della bellezza

imageLa Madonna Sistina è un’opera di Raffaello, dipinta fra il 1513 e il 1514, ovvero pochi anni prima dell’inizio della riforma protestante, che sarebbe scaturita nel 1517 con l’affissione delle 95 tesi di Lutero sul portone della cattedrale di Wittenberg. Raffaello morì nel 1520, l’anno in cui Lutero scrisse tre opuscoli con i quali ruppe definitivamente con la Chiesa cattolica.

Alla luce di questi dati cronologici, è evidente che fra il dipinto di Raffaello e la riforma protestante non ci possa essere nessun tipo di collegamento, eppure la Madonna Sistina sembra offrire in anticipo delle risposte a quelle che saranno le concezioni luterane sulla salvezza e sulla chiesa.

Nella visione protestante, la salvezza è offerta esclusivamente da Gesù Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini. Qui invece Raffaello sembra esporre in immagini quella che è la visione cattolica: Gesù, principale mediatore fra Dio e gli uomini, è offerto ai fedeli-spettatori per il tramite di altri mediatori che in qualche modo cooperano all’opera di salvezza: sua madre, una santa e un papa.

Raffaello ha dipinto Maria nel gesto di donarci Gesù. Nella Madre che ci offre il Figlio, sta tutto il paradosso di un Dio che viene a salvarci attraverso una sua creatura: la nostra redenzione inizia con la mediazione di Maria.

Un ulteriore ruolo di mediazione è svolto dai santi. Questa azione di intercessione è rappresentata da Santa Barbara, riconoscibile dalla torre alle sue spalle. La Santa, inginocchiata alla sinistra della Madonna, rivolge il suo sguardo compassionevole verso l’umanità peccatrice.

Anche la Chiesa svolge una mediazione fra Dio e gli uomini. Questa sua funzione è rappresentata da Papa Sisto che possiamo vedere, anch’egli inginocchiato, alla destra di Maria. Il Pontefice rivolge lo sguardo verso verso Maria e Gesù, mentre con la mano destra mostra loro gli uomini.

Nella visione Luterana, la Chiesa è costituita dai santi che solo Dio conosce e dunque è una realtà esclusivamente spirituale. Per i cattolici invece, la chiesa è una realtà ben riconoscibile e visibile sintetizzata nel dipinto di Raffello dalla Madonna (da sempre icona della Chiesa), da Papa Sisto (aspetto istituzionale) e da Santa Barbara (aspetto carismatico).

Questa “triade” nel dipinto sovrasta due angioletti pensosi e che richiamano quella che nella storia dell’arte è il tema dell’invidia degli angeli. Nelle antiche icone della Natività gli angeli osservavano con una certa perplessità la nascita di Gesù, perché si stavano rendendo conto che la salvezza sarebbe venuta dal Verbo incarnato e non da una creatura puramente spirituale come loro.

Allo stesso modo, in questo dipinto l’idea di una chiesa visibile sembra trionfare su una realtà meramente spirituale. È la glorificazione del terreno, del materiale e del visibile in una logica che ricorda il motto “Caro cardi salutis” (= la carne è il cardi e della salvezza) di Tertulliano.

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La chiesa del Gesù si trova nel pieno centro di Roma e rappresenta a livello architettonico il cuore della spiritualità gesuita. Il tempio infatti fu voluto dallo stesso fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola, che nel fra la fine del 1550 e l’inizio del 1551 vide la posa della prima pietra. Vari architetti misero mano al progetto, ma gli interventi più importanti si devono al Vignola e a Giacomo della Porta.

La struttura della chiesa è quella tipica degli edifici religiosi costruiti nel periodo della Riforma Cattolica: la chiesa ha una pianta a croce latina; un’unica navata, tale da favorire il raccoglimento e la concentrazione durante le sacre funzioni; sei cappelle laterali, tre a destra e tre a sinistra; e una cupola.

Si accede alla chiesa per mezzo di tre porte. Sopra quella centrale è possibile vedere il simbolo della Compagnia di Gesù, che è composto dalle lettere JHS (le prime lettere del nome di Gesù in greco), da una croce sopra la H e dai tre chiodi della croce sotto di essa. Sopra le porte laterali troviamo invece le statue di Sant’Ignazio, a sinistra, e di San Francesco Saverio, a destra.

Sulla trabeazione leggiamo la scritta “Alexander Cardinalis Farnesius S.R.E. vicecanc fecit MDLXXV (=Il Cardinale Alessandro Farnese, vicecancelliere di Santa Romana Chiesa, fece costruire nell’anno 1575). Il Card. Farnese infatti fu munifico donatore verso la Chiesa del Gesù.

Portandoci all’interno della chiesa, possiamo subito ammirare uno dei massimi capolavori di Giovan Battista Gaulli: il trionfo del nome di Gesù. Il monogramma di Gesù (JHS) è adorato da una moltitudine di angeli e di santi. Fra questi possiamo notare Ignazio con i paramenti liturgici, sulla destra, e i magi, sulla sinistra.

Tutta la composizione è ispirata al verso paolino “perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (cfr. Fil 2,10-11) che è possibile leggere su un cartiglio tenuto da alcuni angeli. Infatti le figure, disposte dentro la cornice, su di essa e fuori, rispecchiano proprio la tripartizione del citato passo biblico.

I Gesuiti volevano che la loro chiesa rispondesse a criteri di funzionalità e per questo dotarono la navata di un pulpito. Avrebbero anche voluto un soffitto piatto, in modo tale da poter propagare meglio la voce del predicatore, ma in questo non furono assecondati dal pur generoso cardinale Farnese il quale preferiva una volta a botte, come quella che appunto oggi possiamo ammirare.

Spostando ora la nostra attenzione verso il presbiterio, possiamo concentrarci sulla pala dell’altare maggiore. Essa è opera del pittore romano Alessandro Capalti che ha raffigurato l’episidio della circoncisione di Gesù. Come sappiamo, durante questo rito, che avveniva otto giorni dopo la nascita, veniva dato anche il nome, in questo caso “il nome di Gesù” al quale è dedicata la chiesa. La tela, attraverso un ingegnoso meccanismo, si può abbassare e mostrare la statua del Sacro Cuore.

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La Solennità dei santi Pietro e Paolo ci dà l’opportunità di riflettere su un’immagine che ricorre spesso nella storia dell’arte: la concordia apostolorum. Si tratta di un’immagine tanto semplice quanto profonda nel suo significato. Essa rappresenta i due apostoli Pietro e Paolo nell’atto di abbracciarsi.

Pietro, generalmente sulla sinistra, viene rappresentato come un anziano canuto con i capelli ricci e corti. Paolo invece ha la fronte stempiata e una lunga barba “a punta”. I due nimbi degli apostoli si uniscono a formare un cuore: da qui il nome “concordia” che vuol appunto dire “con un unico cuore”.

Il nuovo testamento ci prestenta i due apostoli come personaggi molto diversi fra loro, sia per il loro carattere che per la loro funzione nella primitiva comunità cristiana. Mentre Pietro aveva conosciuto di persona Gesù e aveva da lui ricevuto il primato sugli altri apostoli, Paolo è diventato discepolo dopo avere avuto una “visione” del Signore. Pietro è stato un “apostolo della prima ora” che ha conosciuto il “Gesù storico”, Paolo ha invece fatto esperienza del “Cristo della fede”.

Nel seguire Gesù non c’ è stata solo una diversità di tempi, ma anche di modi: mentre Pietro, con tutte le umane difficoltà, ha aderito senza riserve, Paolo all’inizio era un persecutore dei cristiani.

Diversa era anche la loro formazione: Pietro era un pescatore, appartenente a quello che oggi definiremmo “ceto medio” e molto probabilmente non aveva avuto una grande preparazione teologica come invece era accaduto a Paolo che apparteneva al partito dei farisei e dunque, fin da giovane, si era prodigato nello studio delle Scritture.

Diverso fu anche il loro tipo di apostolato nel seno della Chiesa: mentre Pietro aveva ricevuto da Gesù stesso l’autorità di guidare la neonata comunità cristiana, Paolo si distinse per il suo zelo missionario e per il desiderio di portare l’annuncio di Cristo morto e risorto per ogni dove.

Pietro, soprattutto in un primo momento, annunciò la buona novella ai Giudei. Paolo invece fece scoprire Cristo ai Gentili, cioè a coloro che non appartenevano al popolo eletto, ma alle “genti”. I due apostoli diventano così le icone delle due anime della chiesa primitiva l’ecclesia ex circumcisione, (proveniente dai Giudei) e l’ecclesia ex gentibus (proveniente dai pagani).

Due figure completamente diverse dunque, eppure unite dall’unico amore per Cristo, un amore che giungerà fino all’effusione del sangue: Pietro morirà crocifisso a testa in giù, non ritenendosi degno di morire come il suo maestro, Paolo, invece, godendo del privilegio concesso ai cittadini romani, verrà decapitato.

Insomma, la concordia apostolorum evoca la cattolicità dell’evento cristiano, il suo tenere insieme anche realtà molto diverse e si può dire che la concordia apostolorum si manifesta nella conciliatio oppositorum.

La coppia dei santi Pietro e Paolo sostituisce quella dei fratelli Romolo e Remo: come Romolo e Remo fondarono la Roma Pagana, i Santi Pietro e Paolo, fratelli nella fede, fortificarono e contribuirono a fondare la Roma Cristiana.

È inoltre interessante notare come questo tema iconografico sia stato ripreso molti secoli dopo per rappresentare San Domenico e San Francesco: il primo, fondatore dell’ordine dei predicatori, mosso dal desiderio di annunciare Cristo attraverso la sapienza e lo studio, l’altro, fondatore dei frati minori, ardente di carità verso gli ultimi. Due carismi diversi che vivono nell’unica chiesa come plasticamente rappresentato, ad esempio, dal Beato Angelico.

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Nell’imminenza della Pasqua, proponiamo questo video nel quale don Gianluca Busi, iconografo, membro della Commissione Diocesana per l’Arte Sacra di Bologna e uno dei principali animatori della Compagnia di San Giovanni Damasceno, spiega come il mistero pasquale sia stato rappresentato nel corso dei secoli.

Secondo il sacerdote, siamo abituati ad immaginare la resurrezione così come ce la propone Piero della Francesca e cioè col Cristo che esce dalla tomba glorioso e vincitore. Tuttavia, una simile rappresentazione è lontana dalle fonti evangeliche e dalle raffigurazioni dei primi cristiani.

Infatti, stando ai vangeli, nessuno ha visto Gesù nell’atto di risorgere. Piuttosto la Sacra Pagina si sofferma sulle esperienze che i discepoli hanno fatto del Risorto che a loro si è manifestato. Nei primi secoli poi, i cristiani hanno rappresentato il principale mistero cristiano attraverso simboli e metafore.

A partire dal VI secolo si afferma l’immagine di Cristo che scende negli inferi e libera Adamo ed Eva. Nel XIV secolo Ambrogio Lorenzetti dipinge per la prima volta il Cristo che esce dal sepolcro. Questa modo di parlare della resurrezione si afferma in modo ancora più compiuto con Andrea del Castagno che rappresenta il risorto osservato da un uomo.

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n occasione della festa dell’Annunciazione proponiamo un video di don Gianluca Busi, iconografo, membro della Commissione Diocesana per l’Arte Sacra di Bologna e uno dei principali animatori della Compagnia di San Giovanni Damasceno.

Nella prima parte, don Gianluca mostra come il tema dell’annunciazione sia stato rappresentato da artisti come Simone Martini, il Beato Angelico, Filippo Lippi e Leonardo da Vinci.

Nella seconda parte Don Claudio Arletti, parroco di Maranello e biblista, si sofferma sul tema della libertà, senza la quale non ci sarebbe stata l’Incarnazione.

Infine don Gianluca analizza un’icona dell’annunciazione realizzata dagli iconografi contemporanei Laura Renzi e Giovanni Raffa che si sono ispirati a quella realizzata nel XIV secolo da Andrej Rublëv.

Don Gianluca, grazie all’ausilio delle immagini e a una profonda lettura iconologica, ci introduce nel mistero dell’incarnazione e ci fa apprezzare il valore catechetico delle opere d’arte.

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È il simbolo stesso della nostra religione, la troviamo rappresentata nei più svariati modi, gli artisti hanno intrapreso una sorta di gara per raffigurarla. Stiamo parlando della Croce. Don Gianluca Busi, iconografo e membro della Commissione Diocesana per l’Arte Sacra di Bologna, ci aiuta con questo video a leggere alcune opere d’arte per introdurci al mistero della morte e resurrezione di Cristo.

Se è importante saper collocare ogni opera d’arte in situ, lo è tanto più per le opere sacre che sono state pensate per uno spazio liturgico. Ciò, ovviamente, vale anche per la croce. Nelle antiche chiese trovava spazio sopra una sorta di tramezzo che divideva il presbiterio dal resto della chiesa. In una simile posizione, la croce veniva a sovrapporsi col volto del Cristo glorioso collocato. In tal modo, il fedele riusciva a percepire il mistero della morte e resurrezione con straordinario equilibrio.

Le cose cambiano con l’affermarsi della spiritualità francescana a partire dal XIII secolo. Il Poverello di Assisi aveva una grande venerazione per il Cristo crocifisso e così la rappresentazione del Nazareno prende sempre più le forme di quello che gli storici dell’arte chiamano “Christus patiens” (= Cristo che soffre).

Attraverso le più svariate raffigurazioni della croce, don Gianluca Busi condurrà le persone a meditare sulla ricchezza del mistero pasquale.

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Rodolfo Papa, pittore, docente di estetica, perito nella XIII Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi e membro della Compagnia di San Giovanni Damasceno (il gruppo facebook che racoglie tutti coloro che diffondono la cultura religiosa attraverso l’arte) si racconta in questo video all’emittente televisiva canadese Sel Lumière.

Rispondendo alle domande del giornalista, Rodolfo Papa ripercorre dapprima le tappe della sua vocazione artistica, per illustrare poi come nella sua esperienza studio, ricerca, pittura e insegnamento universitario siano tutte attività strettamente legate.

Rodolfo Papa, da storico dell’arte, si interessa in particolare di iconologia, e cioè la disciplina che tenta di interpretare le opere d’arte alla luce della simbologia. Una tale lettura richiede delle conoscenze di botanica, di astronomia, di medicina, di gastronomia e dunque consente di spaziare in tanti altri campi del sapere.

L’intervista continua con un’interessante distinzione fra arte, arte religiosa ed arte sacra. Quest’ultima diventa un modo per tradurre in linguaggio pittorico le verità della fede, che devono essere colte dal pittore nella loro essenza, al fine di trasmettere i corretti contenuti della rivelazione cristiana.

La prima parte dell’intervista termina con l’affermazione di Papa sulla centralità del mistero dell’incarnazione che ha reso possibile lo sviluppo dell’arte cristiana. Questo mistero, secondo il docente, assieme a quello della morte di Gesù, stanno alla base della nascita della prospettiva.

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Domenica 1 febbraio, nell’ambito del ciclo di conferenze intitolato “La bellezza della festa. Santi e Patroni di Bologna e altre feste” è stato illustrato lo sviluppo del tema iconografico della Trasfigurazione nel corso dei secoli. Ha guidato la spiegazione don Gianluca Busi, iconografo, membro della Commissione Diocesana per L’Arte Sacra di Bologna e animatore della Compagnia di San Giovanni Damasceno, il gruppo facebook che raccoglie tutti coloro che diffondono la cultura religiosa attraverso l’arte. Ora il video dell’evento è disponibile in rete.

Il sacerdote, mostrando alcuni mosaici, come quello nella Cappella Palatina, e dipinti, come quello di Teofane il Greco o quello di Andrej Rublëv, ha messo in evidenza la contrapposizione fra le rappresentazioni di Mosè ed Elia e quelle di Pietro, Giacomo e Giovanni, poiché, mentre i primi contemplano già la gloria di Dio, gli altri sono presi dai gemiti e dalle sofferenze della condizione umana. Questa condizione è condivisa da tutta la creazione che anela alla redenzione, come è possibile scorgere nelle raffigurazioni delle montagne e della vegetazione.

In occidende si afferma invece una rappresentazione della trasfigurazione più piana e descrittiva, come possiamo notare nelle opere di Duccio, del Beato Angelico, di Bellini, del Perugino di Lorenzo Lotto, di Raffaello e di Veronese.

Anche l’opera del Carracci, che appartiene alla Pinacoteca di Bologna, rappresenta la Trasfigurazione secondo le caratteristiche occidentali. In tale opera inoltre si può osservare l’influsso del pensiero del Cardinale Gabriele Paleotti, Arcivescovo di Bologna e grande teologo dell’immagine nel periodo della Riforma Cattolica insieme a Carlo Borromeo.

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Nel nostro Paese è sempre più crescente l’interesse verso le icone. Ne è prova il fatto che ogni anno se ne realizzano fra i 10.000 e i 15.000 esemplari: un numero davvero impressionante! Per conoscere più da vicino questo affascinante mondo, abbiamo intervistato Ivan Polverari, uno dei più noti iconografi italiani e membro della Compagnia di San Giovanni Damasceno, il gruppo facebook che raccoglie quanti sono interessati a diffondere la religione attraverso l’arte.

Come è nata questa passione?

E’ sempre molto difficile rispondere a questa domanda, sono convinto che siano le icone ad aver incontrato me, attraverso le situazioni e le molte persone che Dio ha messo sul mio cammino.

Il mio primo incontro è stato grazie ai racconti della prigionia, nell’isola di Rodi, di mio nonno materno. Mi narrava di come ogni giorno andasse in una piccolissima chiesa ortodossa, a portare, davanti ad una icona della Vergine, dei fiori dentro i bossoli delle munizioni, chiedendoLe il ritorno a casa sano e salvo, e così è stato.

Poi la vera e propria svolta è avvenuta all’età di 12 anni. Ricordo che stavo guardando un programma televisivo su di un monastero greco, la telecamera si posò su un’icona della Vergine con il Bambino: quei pochi fotogrammi, in cui i Suoi occhi si posarono sui miei, hanno segnato tutta la mia vita.

In ultimo, vorrei ricordare i miei maestri, a cominciare dal mio professore di educazione artistica della scuola media, il Prof. Biagiotti di Urbino, che per primo intuì una mia propensione per l’arte medioevale.

Inoltre, il primo corso a Ravina di Trento, nel 1992, con il maestro Fabio Nones, il contatto epistolare tenuto con suor Junia, iconografa del Monastero russo Uspenskij di Roma e, infine, i corsi con il Maestro P. Andrey Davidov.

La sua attività iconografica si ispira soprattutto alle icone romane. Perché proprio questa scelta ? Potrebbe ricordare ai nostri lettori quali sono e dove si trovano?

Nel mio percorso di studi, mi sono accorto di come l’arte bizantina, a cui era ed è rivolto tutto il mio interesse, non provenisse dal nulla ma avesse come retroterra, formale e culturale, l’arte classica.

Fu proprio il maestro Davidov, che mi fece scoprire quanto fosse grande e splendido il deposito iconografico italiano: a cominciare dall’arte paleocristiana, proseguendo con gli splendidi mosaici Ravennati e, continuando, con tutta la stagione pittorica medioevale.

Attraverso questo itinerario mi sono sempre più convinto di quanto fosse importante il patrimonio artistico della Chiesa Indivisa, a cui sempre più spesso guardano anche le Chiese Ortodosse.

A quell’infinto tesoro dovevo attingere, per poter proporre icone, che non fossero soltanto il prodotto di un “pio esercizio pittorico” o di un esotismo di moda, ma immagini efficaci e riconoscibili adatte per la preghiera liturgica del popolo di Dio, che è a Roma, inserite in un contesto che non è confessionalmente Ortodosso.

Così sono partito dall’arte russa, che mi ha iniziato alla pittura delle icone, e, a ritroso, sono arrivato alla grande stagione pittorica di Roma. Ora, nel mio modo di dipingere, si possono notare i riferimenti al mondo classico, tardo ellenistico e paleocristiano. La conoscenza delle Icone Romane più antiche, dei mosaici e degli affreschi sono per me una continua fonte di ispirazione.

Vorrei ricordare, brevemente, le sei Icone più antiche dell’Urbe e alcuni affreschi situati in alcune Basiliche e Catacombe: l’icona della Madre di Dio “Hodigitria”, (ultimo quarto del VI sec.), conservata presso la Basilica di Santa Maria Nova o Santa Francesca Romana; l’immagine della “Madre di Dio Hodigitria” (609 c.a.), conservata nella Chiesa di Santa Maria ad Martyres (Pantheon); la Madonna di San Sisto o Santa Maria in Tempuli, (sec. VII-VIII), venerata presso la Chiesa del Monastero di Santa Maria del Rosario a Monte Mario; l’icona della Madonna della Clemenza, (fine VI, inizi VIII sec.), venerata nella Basilica di Santa Maria in Trastevere; l’Icona della Madre di Dio, conosciuta come “Salus Populi Romani” (circa del VII sec.) con ridipinture del XII e XIII sec., venerata presso la Basilica di Santa Maria Maggiore.
Infine l’Icona di Cristo detto “Acheropita Lateranense” (circa del sec. VI-VII), venerata nel Sancta Sanctorum in Laterano.

Per quanto riguarda i Mosaici vorrei ricordare quelli della Basilica dei Santi Cosma e Damiano, (sec. VI), di Santa Prassede, (sec. VIII), di Santa Maria in Domnica, (sec. VIII), e di Santa Pudenziana, (sec. VI).

Meravigliosi sono gli affreschi, riportati all’originale splendore da un recente restauro, della Basilica di Santa Maria Antiqua al Foro Romano,( sec. V-VII), e quelli che si trovano nelle Catacombe di Comodilla,(527-528).
L’elenco è indubbiamente incompleto, anche perché il patrimonio iconografico romano, paleo cristiano e altomedievale, è vastissimo.

È coinvolto in attività volte a far conoscere la spiritualità delle icone?

Si, sono co-fondatore, insieme agli iconografi Alfonso Caccese, Antonio De Benedictis, Claudia Rapetti , all’Architetto Diego Sabatino e al Rev. Don Domenico Repice, dell’associazione “In Novitate Radix”. Ci occupiamo dello studio, della rivalutazione e della attualizzazione del patrimonio iconografico cristiano, romano e altomedievale, attraverso incontri, scambi e cooperazioni tra iconografi e docenti delle diverse Università Pontificie presenti a Roma.

Pur partendo da esperienze differenti, siamo giunti alla conclusione della necessità di dare un fondamento, non soltanto tecnico, ma anche culturale, al nostro operato di iconografi, per poter proporre un’arte sempre più autenticamente Cristiana legata alla Scrittura, alla Liturgia e ai Padri.

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Nel video che proponiamo, Don Gianluca Busi presenta al pubblico la mostra Tradizione dello splendore. Icone italiane contemporanee dedicata alle opere d’arte realizzate da 16 iconografi italiani contemporanei che possono essere ammirate presso il museo Magi di Pieve di Cento (Bo) fino al 1 marzo 2015.

L’arte iconografica si sta sempre più affermando nel nostro paese. Per rendersene conto basta citare alcuni dati. Una quarantina di iconografi si dedicano a tempo pieno alla scrittura di icone, mentre un altro centinaio lo fa svolgendo anche altre attività lavorative. Ogni anno si tengono più di 100 corsi di iconografia nei quali sono coinvolti mediamente otto allievi. Ciò significa che si producono in Italia dalle dieci alle quindicimila icone.

Nel video Don Gianluca spiega come gli iconografi contemporanei si rifanno a “4 filoni” iconografici: c’è chi è legato alla tradizione rappresentativa della “Chiesa indivisa” (Fabio Nones, Paolo Orlando, Paola Zuddas), chi invece è più vicino all’iconografia italiana altomedioevale (Giovanni Raffa e Laura Renzi, Fabrizio Diomedi, Giuseppe Bottione), chi ancora si ispira alle icone romane (Ivan Polverari) e infine chi impronta la sua produzione sul modello della Scuola di Mosca (Giovanni Mezzalira, Giancarlo Pellegrini, Antonio de Benedictis, Luisanna Garau e lo stesso Don Gianluca Busi).

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