Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Interviste

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Giovanni Scifoni ha messo in scena la sua opera Santo Piacere nell’ambito del IXXX Convegno di Fides Vita. Prima dell’esibizione ha rilasciato al nostro giornale un’intervista nella quale ha raccontato se stesso e il suo lavoro, mixando temi alti e leggerezza, come è nel suo stile. Un’intervista lunga, ma da non perdere!

Visto che oggi è la festa di tutti i santi partirei proprio dai tuoi video che hanno come protagonisti i santi. Come è nata l’idea e come si è sviluppata?

Il tutto è nato su suggerimento di Paolo Ruffini, oggi direttore del Dicastero per la Comunicazione del Vaticano e all’epoca direttore di Tv2000. All’inizio era una noia infinita perché a parlare dei santi davanti a un cellulare non è stato facile e infatti non mi si filava nessuno! Poi un giorno ho iniziato a coinvolgere la famiglia, mia moglie e i miei tre figli, e la gente ha iniziato a seguirmi: dunque il problema ero io! Ero poco interessante, mentre era molto più interessante la mia famiglia! Le storie dei santi sono straordinarie, meravigliose e sempre diverse: i cattivi si assomigliano tutti nella storia, i santi invece sono tutti diversi. Queste storie sono un pretesto per parlare di qualcosa che ci riguarda un po’ tutti, infatti il santo ha la caratteristica di illuminare con la propria vita le grandi domande che hanno a che fare con ognuno di noi. Quando scrivo queste clip con mia moglie, nei ritagli di tempo fra una lavastoviglie e un’altra faccenda domestica, ci mettiamo a parlare del santo del giorno, di come possiamo raccontarlo e sempre ci chiediamo qual è nella vita di quel santo l’aspetto che parla a tutti: quello è il nostro punto di partenza!

Nel Santo Piacere tu affronti una questione religiosa come in altri testi teatrali che hai scritto. Perché questi temi fanno presa sulle persone? Quale bisogno vanno a intercettare?

Al centro non è tanto l’argomento religioso: è un po’ il contrario! Io non parlo di religione: sto dentro a un mondo che mi è stato consegnato dai miei genitori, dai tanti sacerdoti che ho incontrato nella mia vita, che mi hanno raccontato storie, mi hanno fatto conoscere la bellezza della Sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa. Tutto ciò mi stimola tantissimo e mi suscita un processo creativo molto istintivo e naturale che fa sgorgare in me tante idee. Quando, ad esempio, mi metto a leggere la storia di un Padre della Chiesa mi vengono molte idee che non mi verrebbero leggendo altre storie! Io non parlo di religione, ma utilizzo i temi, le storie e i testi sacri per parlare di cose che hanno a che fare con le questioni esistenziali. Vedo che questo mio lavoro intercetta un bisogno. Una buona parte del mio pubblico è cattolico e dunque si avvicina per identificazione. Poi c’è un pubblico non credente che si avvicina incuriosito. Come anche c’è una fetta di pubblico che si avvicina con sospetto, perché si percepisce in qualche modo che io a queste cose ci credo. Spesso vengono affrontati temi religiosi o sacri, ma è comune vedere nell’artista un certo distacco rispetto a quanto viene trattato. Lo abbiamo visto in grandissimi personaggi come Dario Fo o come Pier Paolo Pasolini, giganti ai quali io non mi accosto e con i quali non voglio fare paragoni, però le persone percepivano un distacco da quello che raccontavano. Invece le persone che vengono a vedere me vedono un’aderenza che crea un cortocircuito strano nello spettatore. Molti sono insospettiti, quasi infastiditi, quasi come se sembrasse strano che un artista possa credere a queste storielle per vecchiette, per chiamarle come Sant’Agostino. Tuttavia questa aderenza suscita una strana sincerità per cui le persone che vengono a teatro vedono qualcosa a cui l’artista crede e questo a volte crea per un’ora mezza – e questa è proprio la magia del teatro – il fatto che in quel momento ci crediamo un po’ tutti. Il bisogno di domande esistenziali è molto presente nel pubblico, come il bisogno di affrontare il destino ultimo dell’uomo, soprattutto nei giovani, che hanno un desiderio incredibile di confrontarsi con questi temi. Su questo versante oggi c’è una scarsa offerta e quindi molti si avvicinano al mio teatro perché sono letteralmente affamati di domande impegnative che cerco di proporre con leggerezza. Questa è un po’ la sfida che mi pongo, quella di raccontare cose pesantissime come la teologia, la patristica con leggerezza.

Quello che fai ti permette di coniugare in maniera esplicita la fede col tuo lavoro. Ci vuoi dire qualcosa di più su questo aspetto?

Una decina di anni fa mi sono reso conto che ero uno a lavoro e uno nella mia vita privata. Ero diverso e diviso e sentivo che per me non andava bene, non mi piaceva e non ero contento di ciò. Ho cercato di capire come mettere me stesso, le cose a me più care nel lavoro ed è avvenuto tutto in maniera naturale e semplice. Mi sono messo a scrivere un primo testo, chiedendomi cosa mi interessasse più di tutto, ed è venuto fuori il mio primo spettacolo sulle ultime sette parole di Cristo e da lì tutti gli altri.

Cosa significa essere credente nel mondo dello spettacolo? La fede può essere un ostacolo in questo mondo?

Inevitabilmente negli ambienti di lavoro c’è una sorta di strano scetticismo e di snobismo da parte della critica teatrale ad esempio che difficilmente si avvicina al mio lavoro perché viene considerato un po’ di nicchia e il fatto che io sia un cattolico praticante può spiazzare. Qualsiasi tipo di coerenza è un problema nel mondo del lavoro. Se tu sei coerente con quello in cui credi, qualunque cosa sia quello in cui credi, ciò costituisce un problema quando si deve scendere a compromessi, perché il lavoro è sempre compromesso. Inevitabilmente non puoi fare tutto o accettare le condizioni che ti vengono date. La famiglia ti può precludere la strada perché gli artisti spesso si sposano col proprio lavoro. Da sempre gli artisti sono stati uomini senza patria, senza famiglia e senza radici, dagli attori girovaghi ai giullari. Avere una famiglia è un’impresa eccezionale per un artista. Ne conosco qualcuno che lo fa come me. Coinvolgere la mia famiglia nella mia vita di artista significa raccontare quello che sono. Torniamo al discorso della coesenza, del «Chi sei?», del «Cosa racconti?». Si dice che l’attore sia uno che si traveste, che finge… è vero, ma se non è profondamente sincero quando si maschera il pubblico se ne accorge e non è contento. Il pubblico vuole vedere nell’attore, anche nel più finto, nel più pagliaccio, nel più mascherato vuole vedere una verità. È il grande paradosso del teatro: tu vuoi vedere la verità nella finzione. Nella mia vita faccio tanti casini, sbaglio, ho fatto molte scelte incoerenti, ma la coerenza rimane per me un obiettivo.

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ROMA – Nel contesto della LIII Giornata delle Comunicazioni Sociali, che si è celebrata domenica 2 giugno, si è tenuto martedì 4 giugno nella chiesa di Santa Maria in Monsanto a Piazza del Popolo (chiamata “la chiesa degli artisti, perché qui ruotano parecchie persone legate al mondo dello spettacolo, della cultura e dell’informazione) un incontro dal titolo Siamo membra gli uni degli altri. Dalle social network communities alla comunità umana. Durante questo evento è stato conferito a Mons. Marco Frisina il Premio Paoline Comunicazione e Cultura 2019. Il noto musicista ha gentilmente risposto a qualche domanda per il nostro giornale diocesano L’Ancora.

Con quelle spirito accoglie questo riconoscimento?

Con un po’ di sorpresa perché fino a qualche mese fa non sapevo nulla di ciò. Dall’altra parte accolgo questo riconoscimento come una sintesi del gran lavoro che ho fatto in questi anni in diversi campi della comunicazione: dalla liturgia, che è il luogo normale della mia attività, al cinema, alla televisione, al teatro. In questi campi ho dato con la mia musica un messaggio ed è bello vedere che questo viene in qualche modo compreso e riconosciuto, perché io ho visto la straordinaria potenza della comunicazione del Vangelo, quando viene a contatto con l’arte, con la bellezza, con la musica. È bello che ci si accorga che la comunicazione è per noi cristiani importante e ha un valore artistico notevole. Credo che il Vangelo dia qualche cosa di più alla comunicazione

Può dire ai nostri lettori di quanti brani si compone il suo repertorio e a quale fra questi si sente più legato?

Per la liturgia ho scritto più di 500 canti, 36 oratori, ho scritto musica per 34 film (sulla Bibbia, sulle vite dei Papi e sui Santi, ndr) e 4 opere per il teatro, tra cui la Divina Commedia che è ancora in scena. Sono affezionato alle musiche del primo film che ho musicato, Abramo, il primo della serie di film sulla Bibbia, oppure a quelle di Preferisco il Paradiso con Gigi Proietti nei panni di San Filippo Neri. Sono affezionato a Benedici il Signore anima mia che è stato il mio primo canto scritto la bellezza di 42 anni fa, quando ero un giovane ragazzo. Sono legato anche al musical La Divina Commedia, che mi sta dando tanta soddisfazione, ma la cui composizione è stata faticosa e difficile, ma a cui assegno una grande importanza, perché amo Dante e credo che, tanto da cristiano che da musicista, sia il più bel testo da musicare, dopo la Bibbia.

Cosa deve assolutamente evitare un coro?

Bisogna innanzitutto vedere di che coro si parla. Se si tratta di un coro liturgico, bisogna evitare di fare l’opera o di fare un concerto. Se invece è un concerto per l’opera, si tratta di evitare soprattutto la retorica che nel nostro mondo non ha più significato ed è invece necessario ritrovare la purezza dell’interpretazione. Questa antiretorica bisognerebbe sempre averla presente, altrimenti si celebra se stessi, invece la musica deve sempre veicolare un grande contenuto.

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È stata da poco celebrata la LIII Giornata delle Comunicazioni Sociali. Abbiamo parlato del tema della comunicazione con Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede.

Quale parte del messaggio che il Santo Padre ha scritto per questa occasione l’ha colpita maggiormente?

Ci deve colpire ciò che il Papa scrive nel titolo del messaggio, cioè Siamo membra gli uni degli altri che è un richiamo all’unità che ci contraddistingue come genere umano e come Chiesa. Questo titolo vuol dire che se la rete, anziché unirci ci divide; se l’identità costruita in rete, anziché portarci alla comprensione ci porta a identità costruite sulla negazione dell’altro; anziché creare occasioni di incontro, ci porta alla solitudine; ci fa perdere il senso di quello che siamo, bisogna avere un sovrappiù di responsabilità. Bisogna sentisi chiamati a riportare gli uomini e le donne del nostro tempo a incontrarsi in carne ed ossa, a riscoprire il valore della condivisione e della comunità.

Dal punto di vista del suo ruolo di Prefetto del Dicastero per la Comunicazione, come vede la realtà dell’informazione nelle diocesi? Riescono i mezzi di comunicazione delle 226 diocesi italiane a raccogliere la sfida della comunicazione?

Si tratta sempre di un cammino: guai a pensare di essere arrivati! Penso che nelle diocesi si stia facendo proprio questo cammino, fondato sull’incontro delle persone. La parte più interessante, appunto, è quella di riuscire ad offrire insieme un servizio, un luogo d’incontro e un luogo di testimonianza della verità e dell’essere cristiani. Quando la rete riesce a essere questo, cioè a non costruire un mondo a parte, ma ad essere parte reale del nostro mondo, quando la parola disincarnata della rete, prende forma in uomini in carne ed ossa che si incontrano, allora la sua efficacia è reale. È questo quello che ci viene richiesto e mi pare che il lavoro che si fa nelle diocesi sia tutto in questa direzione.

Ci può fare un esempio concreto di quello che ha appena affermato?

Si può vedere ciò nell’accompagnamento di chi per età padroneggia con scioltezza i mezzi di comunicazione più moderni e che può insegnarne l’uso a chi non è un nativo digitale e deve essere pertanto aiutato in questo mondo. Allo stesso tempo sono gli anziani che devono insegnare ai più giovani a capire i contenuti. Insomma è necessario essere presenti nella rete e far sì che la connessione sia una comunione e non soltanto un collegamento sterile.

Da quello che si apprende dai mezzi di informazione, la riforma della Curia farà sì che questa sia sempre di più a servizio di tutte le diocesi è non solo in modo esclusivo del Papa. Il Dicastero delle Comunicazioni sarà coinvolto in questo tipo di processo?

Al di là della riforma della Curia in corso, io credo che il Dicastero della Comunicazione nel suo essere a servizio del Papa è anche a servizio delle Chiese locali e a servizio dei cristiani che parlano diverse lingue e così rende evidente questo legame che ci unisce, questo nostro essere una comunità che, attraverso la comunicazione, condivide la ricerca della verità e la testimonianza della fede

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Se nel nostro territorio diocesano sono numerosi gli edifici riaperti al culto grazie agli interventi di restauro resi necessari dopo gli eventi sismici del 2016, non si può dire la stessa cosa per l’intera regione Marche. È quello che emerge da quanto ci ha detto Mons. Stefano Russo, Segretario Generale della Cei e fino al mese scorso Vescovo della diocesi di Fabriano-Matelica.

In che condizioni sono i beni culturali di pertinenza ecclesiastica colpiti dal terremoto? Come procede la loro ricostruzione?

Tutte le diocesi si sono date da fare per collaborare affinché si arrivasse a un piano condiviso di intervento. Pertanto è stato fatto un lavoro straordinario da parte delle diocesi di inventariazione e catalogazione del patrimonio devastato, in collaborazione anche con gli enti e le istituzioni pubbliche. Adesso siamo bloccati rispetto alla ricostruzione delle chiese che stenta ad avviarsi: sono stati fatti dei lavori di messa in sicurezza, ma la ricostruzione vera e propria non ha avuto ancora inizio. Speriamo che la situazione si sblocchi e che non sia necessario aspettare ancora tanto tempo, perché comunque parliamo di oltre 2000 edifici di culto resi inagibili a causa degli eventi sismici che si sono verificati nel 2016.

Quale è stata la reazione della popolazione dei territori colpiti dal sisma in particolare rispetto ai beni artistici della propria terra?

La gente che abita questi territori è fortemente appassionata: ce lo dimostrano le tante storie di persone che, nonostante abbiano avuto il proprio paese devastato, sono rimaste lì vicino ai loro luoghi. Questo attaccamento alla propria terra deve comunque essere accompagnato da azioni di ricostruzione, soprattutto nei luoghi più significativamente colpiti, affinché le persone possano tornare lì e non trovare soltanto una casa, ma delle forme e dei motivi di sussistenza. Si tratta di un lavoro in parte iniziato, ma che deve essere necessariamente accelerato.

C’è qualche edificio interessato dal terremoto che le sta particolarmente a cuore?

Anche se sono amministratore di Fabriano-Matelica, dove abbiamo comunque avuto diversi danni, sono originario del Piceno, un territorio che ha avuto paesi rasi a terra. Ci sono edifici che sono stati messi in sicurezza come la Madonna del Sole a Capodacqua e che certamente costituisce un bene che è stato salvaguardato. Ci sono invece edifici in cui non è stato possibile fare ciò, come ad esempio Santa Maria in Pantano, in località Montegallo: questa chiesa che aveva un grandissimo valore da un punto di vista storico, artistico e paesaggistico, perché è inserita proprio in mezzo alle montagne, praticamente non c’è più.

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Martedì 21 maggio presso la chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, luogo di culto a pochi passi da Piazza di Spagna, è stato presentato il volume Salvare l’Europa. Il mistero delle dodici stelle scritto dal vaticanista del Tg2 Enzo Romeo. Sono intervenuti Matteo Truffelli, presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, Ernesto Preziosi, storico del Movimento Cattolico. L’incontro è stato moderato dal giornalista Mimmo Sacco e ha visto la presenza di Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano, e Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, Arcivescovo di Reggio Calabria – Bova. Per conoscere meglio la genesi e il significato di questo libro, L’Ancora ha intervistato l’autore.

Quali sono le circostanze che l’hanno portata a scrivere questo libro?

Ci stiamo avvicinando a un appuntamento molto importante e delicato, quello delle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo discutendo con gli amici della casa editrice Ave (che è l’editrice dell’Azione Cattolica Italiana, ndr) abbiamo pensato che offrire un’occasione di riflessione sull’Europa partendo anche da un dato di appartenenza cristiana fosse utile. Io avevo nel cassetto da tanti anni del materiale che avevo recuperato a Strasburgo presso gli archivi del Consiglio d’Europa che mi permettevano appunto di ricostruire la storia della bandiera europea, quella che tutti conosciamo e che ha 12 stelle su sfondo azzurro. Da questi documenti emerge un dato che pochi conoscono e cioè che questo simbolismo si richiama alla devozione mariana dell’Immacolata Concezione.

In questa ricerca che lei ha svolto, c’è qualche particolare che l’ha colpita maggiormente?

La storia è costruita da tante casualità che però in una chiave di credenti diventano segni della Provvidenza. A me ha colpito molto che per una serie di moltissime circostanze la bandiera fu adottata l’8 dicembre 1955, proprio nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa dell’Immacolata Concezione. Nessuno lo aveva preventivato e nessuno tra coloro che erano incaricati di votare l’adozione della bandiera aveva in mente questa cosa, eppure avvenne così. Scovando le carte e leggendo lo scambio di lettere, si capisce che alcuni che avevano lavorato per l’adozione di questa bandiera in cuor suo sperava che questo avvenisse. Non ci fu mai un’esplicitazione di questo perché non si voleva dare una coloritura confessionale.

Che valore ha il suo libro nell’attuale dibattito culturale nel quale c’è un vivace confronto fra i sostenitori dell’identità e quelli dell’accoglienza?

È indispensabile che noi non neghiamo quelle che sono le radici cristiane, anzi, dobbiamo valorizzarle. Però bisogna capirsi su un fatto: cosa vuol dire recuperare la propria identità cristiana? Vuol dire sguainare una spada per colpire qualcuno, un presunto avversario, un nemico, un concorrente oppure significa essere più inclusivi, più accoglienti e quindi costruire un’Europa più ispirata all’insegnamento del Vangelo?

Da protagonista del mondo dell’informazione, secondo lei in questa campagna elettorale si è veramente parlato di Europa oppure il dibattito si è appiattito su questioni nazionali?

Si è parlato di Europa però partendo sempre dai propri problemi e in un certo senso è anche giusto così, però io segnalo questa contraddizione: da una parte si accusa l’Europa di essere una grande ed inutile macchina burocratica che non solo non ci aiuta a risolvere i problemi, ma che vuol farci i conti, ci toglie sovranità, respiro dall’altra però è all’Europa che si chiede la soluzione dei problemi che ci angosciano. Come fare a mettere insieme queste due cose? L’ho notato durante la campagna elettorale, ma lo noto anche in quello che è l’umore delle persone. Probabilmente sono le grandi paure di questo momento che spingono ad avere questa visione. Si capisce poi che senza una visione alta di approccio comunitario ai problemi, questi problemi sono irrisolvibili nella società globalizzata nella quale viviamo

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Qual è oggi la posta in gioco sul tema dell’immigrazione?

Prima di qualsiasi analisi, riflessione, proposta, anche prima di qualsiasi denuncia, bisogna sempre tenere a mente che si tratta di esseri umani. Alle volte si parla delle persone come fossero delle cose. Già nel nostro lessico stabiliamo delle separazioni. E questo ci riguarda tutti. Ogni volta che parliamo di noi stessi come di “consumatori”, solo per fare un esempio, stiamo spersonalizzzando. In questa ottica, le persone vengono misurate secondo la loro “funzionalità” e chiunque non sia in qualche modo “conveniente” diventa per forze di cose un peso. I migranti non fanno eccezione ed anzi diventano il parafulmine di paure e frustrazioni. Paura per la nostra sicurezza, timori per la nostra già precaria condizione economica, con il risultato di generare tensioni spesso irrazionali che possono fare breccia soprattutto nei soggetti meno controllabili, come è avvenuto proprio a Macerata con la mancata strage di migranti.

La formula “Aiutiamoli a casa loro” adottata in modo trasversale da più di un politico può essere valida in qualche modo?

Dipende da cosa si intende per “aiutare” e per “casa loro”. Io direi prima di tutto “ascoltiamoli”. Siamo davvero sicuri di conoscerli, di interpretarne i bisogni, le risorse, le potenzialità, tanto nelle loro terre d’origine che qui “a casa nostra”? Se guardo a come si espande il traffico internazionale di armi, i conflitti per il controllo delle risorse energetiche (come in Libia), la cosiddetta “esportazione della democrazia” avvenuta a colpi di aggressioni militari, la delocalizzazione di tante aziende (anche molte italiane) al solo scopo di produrre di più spendendo di meno, ecco tutto questo deve interrogarci sul nostro modello di sviluppo e su come questo influenza direttamente anche i flussi migratori.

Ultimamente il dramma dell’immigrazione è stato accostato a quello della Shoah. Secondo lei queste due tragedie sono assimilabili?

Le Nazioni Unite ci dicono che il numero complessivo di profughi di guerra registrati nel mondo nel nostro tempo è superiore a quanti se ne contarono durante il Secondo conflitto mondiale. E nell’ottica della “Terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, secondo la definizione che ne ha dato Papa Francesco, vi sono ovunque dei lager in forme che facciamo fatica ad accettare come tali. Non sono forse “campi di concentramento” le miniere di cobalto nelle quali vengono mandati a morte bambini anche piccolissimi e dei quali pochissimo sappiamo? Non sono forse dei lager i campi di prigionia dei trafficanti di esseri umani libici che schiavizzano, stuprano uccidono? E che dire del Sahara, diventato un immenso cimitero nel quale ogni giorno muoiono migranti abbandonati dai trafficanti? La Shoah è stata certo un Olocausto e gli accostamenti rischiano d’essere sempre fuori luogo o fuorvianti, ma resta un monito perché mai più, in nessuna forma, si possa ripetere l’eliminazione sistematica di migliaia e migliaia di persone solo perché “diverse” da come le vorremmo.

C’è il rischio concreto in Italia di tornare a qualcosa di simile alle leggi razziali?

Non credo che l’Italia sia un Paese razzista. Ma ciò non vuol dire che non vi siano dei razzisti. Il punto non è il rischio di riproporre norme come le leggi razziali, ma permettere, tollerare, in qualche modo chiudere un occhio davanti a forme più o meno plateali di discriminazione. Quello che la Storia ci insegna è che una volta avviata la macchina dell’odio, diventa poi difficile fermarla per tempo. In nome della giusta richiesta di sicurezza, di stabilità economica, in altre parole di benessere, non possiamo dilapidare un patrimonio di valori e testimonianze. La vera sfida è quella di restare fedeli ai propri principi senza diventare, questo sì, schiavi della paura e di chi lucra grazie ad essa.

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Fotografia Silvio VenieriSAN BENEDETTO DEL TRONTO – L’associazione culturale I Luoghi della Scrittura ha organizzato per il settimo anno consecutivo Piceno d’Autore. All’interno dell’evento, nella sezione L’uomo, il divino, il sacro insigni personaggi rifletteranno su varie tematiche religiose. Già il 12 luglio, il filosofo Massimo Cacciari ha riflettuto sul concetto di sacro. Fra gli altri segnaliamo Vito Mancuso, che il 18 luglio presenterà Dio e il suo destino; il vaticanista Andrea Tornielli che presenterà il 19 luglio il libro-intervista a Papa Francesco Il nome di Dio è Misericordia; il genetista Edoardo Boncinelli che presenterà il suo volume Contro il Sacro. Perché le fedi ci rendono stupidi. Per conoscere meglio finalità e obiettivi del ciclo L’uomo, il divino, il sacro, abbiamo intervistato l’Avv. Silvio Venieri, Segretario de I Luoghi della Scrittura.

Come mai la vostra associazione ha scelto di proporre quest’anno un tema così impegnativo in piena estate?

L’atteggiamento rilassato che è permesso vivere durante la stagione estiva può costituire una condizione propizia per dedicarsi all’approfondimento di temi impegnativi, che rischiano di essere trascurati a causa degli affanni quotidiani. Ritengo che non sia concepibile definire un’antropologia dell’uomo senza considerare la dimensione del divino e del sacro, con una valenza pregna di implicanze anche nella nostra contemporaneità; allora, si potrebbe ribaltare la domanda: perché mai non occuparsi del rapporto che l’uomo vive con il concetto del divino e del sacro ?

La prima serata che ha visto come protagonista il Prof. Cacciari è stato un assoluto successo con una straordinaria partecipazione di pubblico. Secondo lei è stato un nome così importante a richiamare così tante persone o c’è un reale interesse verso il tema del sacro e della religiosità?

Sicuramente il Prof. Massimo Cacciari costituisce una personalità di grande richiamo, ma, a parte la folta partecipazione di pubblico, quello che più conta in termini di soddisfazione per noi organizzatori dell’Associazione I Luoghi della Scrittura è aver riscontrato un clima di grande attenzione e concentrazione nell’uditorio. Raccogliendo le impressioni dei presenti, mi ha colpito la capacità di penetrazione che hanno avuto soprattutto le considerazioni svolte in riferimento alla figura di Gesù, trattata dal prof. Cacciari partendo dall’ottica storico-filologica e non su presupposti di fede, come ha spiegato lo stesso.

Scorrendo i nomi degli invitati sembra che ci sarà sul tema una polifonia di voci…

Abbiamo riscontrato che gli autori in questione, di sicuro spessore e con una fama già diffusa, avevano avuto modo nei loro ultimi lavori di trattare argomenti collegabili al tema della rassegna, non solo Mancuso, Tornielli, Boncinelli, con i loro saggi, ma anche Paolo Di Paolo, che, con la sua opera di narrativa Una storia quasi solo d’amore, ha modo di delineare la figura di una donna, co-protagonista del romanzo, che vive la sua esperienza di fede all’interno della Chiesa Cattolica all’epoca di Papa Francesco. Lo stesso scrittore ha riconosciuto che il tema prescelto si attagliava benissimo alla storia narrata nel suo libro.

Si parla di Sacro, ma non c’è una figura religiosa. Si tratta di una scelta mirata?

Il nome di Dio è Misericordia di Andrea Tornielli, come è noto, è un intervista a Papa Francesco sulla misericordia, per cui l’opera si dipana intorno al pensiero del Sommo Pontefice.
Non può disconoscersi che la teoria e la pratica della religione non possano ritenersi monopolio esclusivo dei religiosi appartenenti agli ordini ecclesiastici, ma che siano sicuramente patrimonio anche del cosiddetto “mondo laico”. Così come non si può negare che vi sia una religiosità popolare che bordeggia tra il sacro e il profano, come ci spiegherà, in relazione alle esperienze che fanno capo al nostro territorio, la prof.ssa Benedetta Trevisan in un altro incontro previsto in programma.

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Si è svolto a Madrid dal 9 all’11 dicembre un corso di formazione sui temi della comunicazione rivolto ai membri della Consiglio delle Conferenze E episcopali Europee (CCEE). Fra i vari esperti di comunicazione che hanno tenuto il corso, c’era anche Martina Pastorelli, fondatrice di Catholic Voices Italia (www.catholicvoicesitalia.it). L’abbiamo intervistata per fare un punto della situazione sul rapporto fra Chiesa e comunicazione.

Come è nato il corso che si è tenuto a Madrid?

Penso che il corso, che è stato promosso dalla Commissione Episcopale per le Comunicazioni Sociali del CCEE e organizzato dalla Fondazione Carmen de Noriega, sia frutto della volontà della Chiesa di “leggere i segni dei tempi”: si sta facendo strada la consapevolezza che per rispondere alle sfide poste dalla società attuale si debbano cercare modi che comunichino con linguaggio comprensibile la perenne novità del Cristianesimo. In questo senso, l’approccio di Catholic Voices rappresenta uno strumento prezioso a disposizione dei cattolici per dialogare con la cultura contemporanea, giacchè li aiuta a rendere vivibili e appetibili i valori cristiani anche per persone di sensibilità diverse. Si tratta di un passaggio fondamentale, perché come ci insegna Papa Francesco, è da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali. I vescovi hanno apprezzato molto come il reframing di Catholic Voices metta la comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro.

Quali temi in particolare sono stati affrontati?

Tutti quelli su cui la Chiesa e la società civile tendono ad entrare in collisione (aborto, famiglia, sessualità, procreazione assistita, libertà religiosa, ecc): Catholic Voices le chiama ‘questioni nevralgiche’ perché toccano i nervi scoperti delle persone, e le traduce in occasioni per vivere e comunicare la fede in un modo tale che gli altri percepiscano l’impegno della Chiesa e dei cattolici come contributo al bene comune e non come un pericolo da cui difendersi.

Possiamo dire che la Chiesa è nata come strumento di comunicazione per annunciare a tutti la buona notizia di Cristo morto e risorto. Quali sono oggi i punti di forza della Chiesa nel campo della comunicazione?

A dispetto delle apparenze, i tempi che stiamo vivendo sono una grande opportunità per una nuova evangelizzazione. Per attuarla – ci spiega il Papa – alla Chiesa serve un nuovo slancio missionario, che richiede il coraggio e la pazienza di ascoltare l’altro per poi andargli incontro partendo da ciò che abbiamo in comune, in primis il bisogno di amare ed essere amati. Punto di forza della Chiesa è proprio il suo essere “esperta in umanità”. Se aggiungiamo anche quella straordinaria risorsa (vera e propria “medicina”) che è la misericordia – intesa come capacità di mostrare il volto misericordioso di Cristo – si capisce che la Chiesa ha davanti a sé un’occasione straordinaria per arrivare al mondo intero.

E invece quali sono le criticità? Quali sono gli errori più frequenti?

Sono diversi: ad esempio chiudersi nel recinto della rabbia e delle paure (per questo il Papa parla invece sempre di aprirsi); praticare quella che Francesco ha definito “fede da tabella” (che esclude chi dà fastidio o non rispetta i nostri ritmi); lavorare solo con formule che, pur vere, non vengono più intese nel mondo di oggi. Anzichè predicare complesse dottrine – il che ovviamente non esclude l’annuncio della Verità – oggi serve incontrare, dialogare e testimoniare per trasmettere la bellezza della proposta cristiana, la sua “convenienza” inclusiva, il suo impegno per la dignità di tutto l’uomo e di ogni uomo.

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La Compagnia di San Giovanni Damasceno, il gruppo facebook che raggruppa oltre trecento appassionati di arte sacra, compie un anno! È stata “fondata” infatti il 4 dicembre (giorno nel quale la Chiesa fa memoria di San Giovanni Damasceno) dello scorso anno dal nostro redattore Nicola Rosetti che abbiamo intervistato.

Nicola, come è nata l’idea di creare un gruppo facebook di questo tipo?

Da quando ho iniziato a insegnare religione, mi sono sempre servito delle immagini artistiche che mi hanno aiutato a raccontare, ad esempio, le storie della bibbia. La visione delle immagini facilita molto la comprensione dei testi sacri e dunque per me è diventato abituale fare lezione con parole e immagini. Molti colleghi lavorano nello stesso modo. Poi ho iniziato a vedere che c’erano tante persone che, in altri ambiti e per altre finalità, erano interessate all’arte sacra e così ho cercato di metterle in contatto nel modo oggi più semplice e cioè attraverso un gruppo facebook.

Perché il gruppo è dedicato a San Giovanni Damasceno?

San Giovanni Damasceno è una figura quasi del tutto sconosciuta e tuttavia è un personaggio fondamentale nella storia della Chiesa. È l’ultimo Padre della Chiesa vissuto a cavallo fra il VII e l’VIII secolo ed è l’uomo al quale dobbiamo essere grati se nelle nostre chiese possiamo trovare così tante belle opere d’arte. Infatti c’è stato un momento nella storia della Chiesa nel quale ogni immagine sacra sarebbe potuta sparire per sempre, infatti, l’imperatore bizantino Leone III Isaurico voleva che nei luoghi di culto non vi fossero immagini in ossequio alla trascendenza di Dio. San Giovanni Damasceno si oppose strenuamente a questa visione aniconica, spiegando che, nel momento in cui il Verbo di Dio si è fatto carne e ha preso il volto di Gesù di Nazaret, per i cristiani è possibile rappresentare il divino. Le tesi di San Giovanni Damasceno vennero riprese durante il secondo Concilio di Nicea che condannò l’iconoclastia e stabilì una volta per tutte la liceità delle immagini. Possiamo dire che col Secondo Concilio di Nicea, il tema dell’immagine è entrato a far parte del patrimonio dogmatico del cristianesimo: l’arte non è qualcosa di accessorio o secondario nella vita della Chiesa, anzi, essa svolge a pieno titolo una vera e propria azione evangelizzatrice! Infine, è importante notare che, anche a livello “laico”, se oggi viviamo nella “società dell’immagine”, lo dobbiamo a San Giovanni e al Secondo Concilio di Nicea!

Chi fa parte della Compagnia di San Giovanni Damasceno?

Oltre agli insegnanti di religione che ho già menzionato, fanno parte del gruppo tanti appassionati di iconografia, diverse persone che operano all’interno di musei diocesani ed esperti di arte sacra.

In che cosa consiste l’attività del gruppo?

Si tratta di un gruppo spontaneo, creato “dal basso” e pertanto non ci sono regole definite. Molto semplicemente, chi fa parte del gruppo posta sullo spazio comune temi che possono interessare agli altri membri. Condividiamo materiale fotografico, link su siti o articoli che parlano di arte sacra, titoli di libri, esperienze ed eventi. È bello quando, ad esempio, il responsabile di un museo ci parla di qualche iniziativa intrapresa per rendere più fruibili le opere d’arte di cui i musei diocesani sono pieni: l’esperienza di uno può stimolare e arricchire gli altri.

Concludiamo con una domanda più personale. Quale opera d’arte ti affascina di più o senti più vicina?

Per la profondità dei significati, credo che i dipinti di Caravaggio nella Cappella Contarelli siano qualcosa di insuperato! Però se dovessi scegliere un’opera d’arte che sintetizzi allo stesso tempo il mio lavoro e lo spirito della Compagnia, sceglierei senza ombra di dubbio il San Luca dipinto da El Greco. In questa opera, l’evangelista mostra un vangelo aperto su una pagina scritta e su una illustrazione: è come se il pittore ci volesse ribadire ancora una volta l’inscindibile binomio parola-immagine

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Il viaggio apostolico di Papa Benedetto XVI nel Regno Unito che si svolse nel settembre 2010 fu preceduto da non poche polemiche, sia nelle piazze che sui media. Per quanto possa essere paradossale, in una cultura che si vanta delle proprie aperture, sembrava non esserci spazio per il capo della Chiesa Cattolica.

In questo contesto, Austen Ivereigh e Jack Valero, due cattolici che operano nel mondo della comunicazione, non si persero d’animo, raggrupparono una trentina di “ordinary catholics”, che in 6 mesi di Media Training trasformarono in capaci comunicatori della propria fede sui temi più scottanti dell’attualità. Fu un successo: le “voci cattoliche”, formate per trasmettere nel modo più efficace il messaggio cristiano attraverso i media, diedero oltre 100 interviste radio/tv, contribuendo a migliorare in modo significativo l’immagine della Chiesa nel Regno Unito.

Nasceva così Catholic Voices che nel corso di questi quattro anni si è estesa in ben 15 paesi. Fra questi, da poco, c’è anche l’Italia. Per conoscere meglio questa realtà abbiamo intervistato Martina Pastorelli, fondatrice di Catholic Voices Italia e curatrice del libro che ne spiega il metodo, intitolato “Come difendere la fede senza alzare la voce” (ed. Lindau).

Perché Catholic Voices Italia?

Tutto nasce da un’esperienza molto personale. Sposata con un non credente e circondata da amici di impronta liberal, mi sono trovata sempre più spesso chiamata in causa per la mia fede, quasi a dover “giustificare” certe posizioni della Chiesa. All’inizio erano confronti animati, da cui uscivo scoraggiata e sentendomi non capita, poi un bel giorno la reazione cambia e mi sento dire: “E’ così che quelli come voi riusciranno a portare dalla vostra parte, su certi temi, quelli come noi”. Cos’era successo? Che nel frattempo mi ero imbattuta in Catholic Voices e ne avevo applicato il metodo, che spiega come il linguaggio e il modo con cui ci si pone facciano la differenza. Si tratti della pausa caffè al bar coi colleghi piuttosto che di un dibattito pubblico, il cattolico del gruppo finisce spesso per dover rendere conto della propria fede. Ecco, in queste circostanze, sapere argomentare il maniera umana, chiara e pacata è essenziale. Papa Francesco, tra l’altro, ce lo dimostra ogni giorno.

Qual è il punto di forza del metodo di Catholic Voices?

Il metodo, chiamato reframing, insegna a individuare in ogni critica mossa alla Chiesa, anche la più ostile, un’intenzione positiva, un valore che è quasi sempre (anche se inconsciamente) cristiano e parte da questo terreno comune per riformulare l’argomento e far riflettere sulla posta in gioco. E’ un metodo che permette di uscire dalla logica del conflitto, a mettere da parte aggressività e vittimismi, a fare appello alla ragione, al buon senso. A entrare in un rapporto prima di tutto umano con l’altro. Crea empatia, che è il presupposto di ogni dialogo.

Possiamo dire che il progetto di Catholic Voices porta avanti una nuova forma apologetica?

Sì, una nuova apologetica, che sa parlare alla società di oggi, anche attraverso i suoi mezzi di comunicazione, così centrali. Si tratta di equipaggiare i cattolici, aiutarli a spiegare nel modo più efficace i valori in cui crediamo e l’impegno autentico della Chiesa per il bene comune. L’obiettivo è riuscire a dialogare con tutti, credenti e non, sui temi che toccano l’intera società, proprio perché è in gioco il bene della società stessa. In questo raccogliamo l’invito di Papa Francesco che ha chiamato i cristiani “a dialogare con quelli che non la pensano come noi, con quelli che hanno un’altra fede o che non hanno fede”. Il Papa ci ha ricordato che possiamo andare incontro a tutti senza paura e senza rinunciare alla nostra appartenenza.

Quali iniziative concrete sta portando avanti Catholic Voice in Italia?

Catholic Voices si articola in corsi di media training per quanti intervengono nel dibattito pubblico (il primo partirà a Roma tra pochi giorni) ma si rivolge anche a un pubblico più vasto con il libro “Come difendere la fede senza alzare la voce”, che applica il metodo del reframing ai temi più controversi e suggerisce i punti chiave da mettere in evidenza per spiegare la posizione della Chiesa, riuscire a vincere i pregiudizi e riavviare il dialogo con umanità e buon senso.

Qual è il rapporto di Catholic Voices con la gerarchia cattolica?

Catholic Voices non parla ufficialmente a nome della Chiesa ma ne ha la benedizione e ne rispetta in toto la leadership e la dottrina. In tutto il mondo ha ricevuto ampi consensi tra i vescovi e i massimi esponenti della Chiesa: penso ad esempio al Cardinale e Arcivescovo di New York, Dolan, grande fan del progetto o all’Arcivescovo di Westminster Nichols, che ha definito “cruciale” il tentativo di CV di mettere insieme fede e ragione nel dibattito pubblico.

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