Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Qual è oggi la posta in gioco sul tema dell’immigrazione?

Prima di qualsiasi analisi, riflessione, proposta, anche prima di qualsiasi denuncia, bisogna sempre tenere a mente che si tratta di esseri umani. Alle volte si parla delle persone come fossero delle cose. Già nel nostro lessico stabiliamo delle separazioni. E questo ci riguarda tutti. Ogni volta che parliamo di noi stessi come di “consumatori”, solo per fare un esempio, stiamo spersonalizzzando. In questa ottica, le persone vengono misurate secondo la loro “funzionalità” e chiunque non sia in qualche modo “conveniente” diventa per forze di cose un peso. I migranti non fanno eccezione ed anzi diventano il parafulmine di paure e frustrazioni. Paura per la nostra sicurezza, timori per la nostra già precaria condizione economica, con il risultato di generare tensioni spesso irrazionali che possono fare breccia soprattutto nei soggetti meno controllabili, come è avvenuto proprio a Macerata con la mancata strage di migranti.

La formula “Aiutiamoli a casa loro” adottata in modo trasversale da più di un politico può essere valida in qualche modo?

Dipende da cosa si intende per “aiutare” e per “casa loro”. Io direi prima di tutto “ascoltiamoli”. Siamo davvero sicuri di conoscerli, di interpretarne i bisogni, le risorse, le potenzialità, tanto nelle loro terre d’origine che qui “a casa nostra”? Se guardo a come si espande il traffico internazionale di armi, i conflitti per il controllo delle risorse energetiche (come in Libia), la cosiddetta “esportazione della democrazia” avvenuta a colpi di aggressioni militari, la delocalizzazione di tante aziende (anche molte italiane) al solo scopo di produrre di più spendendo di meno, ecco tutto questo deve interrogarci sul nostro modello di sviluppo e su come questo influenza direttamente anche i flussi migratori.

Ultimamente il dramma dell’immigrazione è stato accostato a quello della Shoah. Secondo lei queste due tragedie sono assimilabili?

Le Nazioni Unite ci dicono che il numero complessivo di profughi di guerra registrati nel mondo nel nostro tempo è superiore a quanti se ne contarono durante il Secondo conflitto mondiale. E nell’ottica della “Terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, secondo la definizione che ne ha dato Papa Francesco, vi sono ovunque dei lager in forme che facciamo fatica ad accettare come tali. Non sono forse “campi di concentramento” le miniere di cobalto nelle quali vengono mandati a morte bambini anche piccolissimi e dei quali pochissimo sappiamo? Non sono forse dei lager i campi di prigionia dei trafficanti di esseri umani libici che schiavizzano, stuprano uccidono? E che dire del Sahara, diventato un immenso cimitero nel quale ogni giorno muoiono migranti abbandonati dai trafficanti? La Shoah è stata certo un Olocausto e gli accostamenti rischiano d’essere sempre fuori luogo o fuorvianti, ma resta un monito perché mai più, in nessuna forma, si possa ripetere l’eliminazione sistematica di migliaia e migliaia di persone solo perché “diverse” da come le vorremmo.

C’è il rischio concreto in Italia di tornare a qualcosa di simile alle leggi razziali?

Non credo che l’Italia sia un Paese razzista. Ma ciò non vuol dire che non vi siano dei razzisti. Il punto non è il rischio di riproporre norme come le leggi razziali, ma permettere, tollerare, in qualche modo chiudere un occhio davanti a forme più o meno plateali di discriminazione. Quello che la Storia ci insegna è che una volta avviata la macchina dell’odio, diventa poi difficile fermarla per tempo. In nome della giusta richiesta di sicurezza, di stabilità economica, in altre parole di benessere, non possiamo dilapidare un patrimonio di valori e testimonianze. La vera sfida è quella di restare fedeli ai propri principi senza diventare, questo sì, schiavi della paura e di chi lucra grazie ad essa.

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