Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Nicola Rosetti

Venerdì 27 maggio, presso il centro Biancazzurro si è svolta la presentazione del libro L’Amore che guarisce, di Giulia Ciriaci e Ascenza Mancini che hanno presentato al numeroso e variegato pubblico l’esperienza di vita e di fede di Francesco Vittorio Massetti, sacerdote sambenedettese tanto grande quanto purtroppo sconosciuto. Le autrici hanno così tratteggiato la figura di don Vittorio, un vero profeta che ha anticipato con la sua vita e le sue opere quanto sarebbe poi sbocciato col Concilio Vaticano II: basti pensare al tema della chiamata universale alla santità, all’importanza data ai laici e in particolar modo alle donne, alla proposta di vita comunitaria per i sacerdoti. Queste intuizioni hanno preso consistenza a partire dal binomio che più ha connotato la sua esistenza: l’affidamento alla Provvidenza e la gratuità dell’azione svolta a favore degli ultimi.

L’incontro è stato impreziosito dalla presenza di don Gianni Anelli, canonico penitenziere della Cattedrale di San Benedetto del Tronto, che ha conosciuto don Vittorio ed è rimasto influenzato dal suo carisma. Durante il suo intervento, don Gianni ha espresso tutta la sua gratitudine alle autrici per questo volume che restituisce alla Chiesa la figura di don Vittorio nella sua interezza. Don Gianni è stato la fonte alla quale le autrici hanno attinto per riportare alla luce la figura di don Vittorio e l’anziano sacerdote si è prestato a questo lavoro sentendolo come una sorta di debito verso don Vittorio.

Al prof. Giancarlo Brandimarte e a Giuseppe Gregori sono stati affidate le letture di alcuni brani che hanno consentito ai partecipanti una più diretta introduzione nel vissuto di questo sacerdote chiamato “Vitto” dai sambenedettesi, “Franz” dagli studenti del collegio Augustinianum della Cattolica a Milano di cui è stato direttore, nome quest’ultimo che gli era stato dato dal Beato Piergiorgio Frassati, suo compagno di studi universitari.

Ma la figura di don Vittorio, così come è tratteggiata nel libro, ha da dire ancora qualcosa alla gente di oggi oppure quella delle autrici è una semplice rievocazione storica? Questa è la domanda che Giulia Ciriaci e Ascenza Mancini hanno fatto all’inizio dell’incontro e che ha accompagnato l’intera presentazione. Alla fine la risposta è venuta da sola: la vita dell’uomo, prima ancora che del sacerdote, è stata tutta poggiata su Cristo e pertanto essa risulta vera, autentica e capace dunque di valicare i limiti del tempo.

Al termine della serata ha preso la parola il vescovo Mons. Carlo Bresciani che ha detto come la storia narrata nel libro gli abbia consentito di ripercorrere alcuni momenti della sua vita e di poterli ricollegare alla figura di don Vittorio. Infatti, don Vittorio, che sotto il pontificato di Pio XII era stato condannato dal Sant’Uffizio, recuperò la pienezza del sacerdozio sotto Paolo VI, ma preferì trasferirsi a Brescia presso l’amico don Re, prete che l’allora giovane sacerdote Carlo Bresciani frequentava. Ora, improvvisamente, Mons. Bresciani è riuscito a dare un nome a quel sacerdote anziano e spesso silenzioso che gli vedeva accanto: si trattava proprio di don Francesco Vittorio Massetti! Infine, il vescovo ha sottolineato come tra le tante cose realizzate da don Vittorio, la più grande sia stata quella di rimanere fedele alla Chiesa durante tutta la persecuzione subita.

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L’Atlante Storico del Concilio Vaticano II, diretto da Alberto Melloni e curato da Enrico Galavotti e da Federico Ruozzi, tutti docenti di Storia del Cristianesimo, è edito dalla Jaca Book e costituisce quasi il sesto volume della monumentale opera Storia del Concilio Vaticano II, curata da Giuseppe Alberigo. Come Alberigo si era ispirato alla Storia del Concilio di Trento di Jedin per realizzare la sua più importante opera sul Vaticano II, così Alberto Melloni ha tratto spunto dallo stesso storico tedesco e dal suo Atlante di Storia della Chiesa per realizzare l’opera che presentiamo. Il volume è un indispensabile strumento non solo per gli specialisti, ma per chiunque voglia accostarsi allo studio di quello che, giustamente, è stato definito l’evento storico religioso più importante del XX secolo.

L’atlante si sviluppa su un duplice asse spazio-temporale. Da una parte ripercorre l’intera storia del Concilio Vaticano II, dall’annuncio dato da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, alla sua chiusura, ad opera di Paolo VI, l’8 dicembre 1965. Il lettore è così guidato per l’intero arco temporale delle 4 sessioni in cui il Concilio si è svolto. Dall’altra si mostrano i luoghi e gli spazi nei quali il Concilio si svolse: mentre alcune planimetrie (p. 80 e p. 88) ci mostrano la conformazione dell’aula conciliare e come i padri vi erano disposti, altre addirittura ci offrono la possibilità di capire presso quali istituti erano alloggiati i vescovi (p. 149) o dove avevano sede le avarie commissioni, conferenze episcopali e gruppi. Per comprendere le modalità di svolgimento e attuazione dei vari periodi del Concilio, sono utili le infografiche relative alle frasi antepreparatoria e preparatoria (p.51) e ai regolamenti procedurali (pp. 100-101).

Per quanto riguarda coloro che presero parte ai lavori conciliari, una tavola, oltre a fornire tutti i nomi dei partecipanti, in ordine alfabetico, illustra anche a quali sessioni hanno presenziato (pp. 265-277). Al fine della ricerca, risultano anche molto utili le tavole che indicano i componenti degli organi direttivi del Concilio e delle Commissioni (pp.126-133). Un ottimo apparato fotografico consente di dare un volto a molti dei protagonisti dell’assise ecumenica e la scelta di arricchire l’opera con un abbondante numero di foto dell’epoca, tutte in altissima definizione, mette in evidenza la volontà degli autori di raccontare un Concilio che non è costituito solo da documenti, ma soprattutto da quelle persone che, provenendo da ogni parte del mondo, hanno contribuito a scrivere questa importante pagina della storia della Chiesa. Questa operazione, che restituisce viva plasticità al Concilio, è facilitata anche da un buon numero di grafici, istogrammi “a torta” e cartine geografiche (pp.84-87) che ci illustrano la composizione dei padri conciliari per provenienza.

Non mancano cifre e curiosità come ad esempio quelle che riguardano i costi per la realizzazione del Concilio, calcolati in 4.562.007.733 di lire o quelle inerenti i momenti di relax per i padri conciliari, per i quali all’interno della Basilica Vaticana vennero istituiti due punti di ristoro dai nomi biblici “Bar-Jona” e “Bar-Abba” (p. 147)!

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ROMA – Martedì 17 maggio, alle ore 17.00, presso la Sala Guglielmo Marconi di Radio Vaticana è stato presentato il volume La diplomazia pontificia. Aspetti Ecclesiastico-canonici di Matteo Cantori, giovanissimo autore osimano al suo esordio. Hanno relazionato sul tema Mons. Giovanni Tonucci, Delegato Pontificio per la Basilica della Santa Casa e già Nunzio Apostolico in Bolivia, Kenia, Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia e Pierre-Yves Fux, Ambasciatore della Confederazione Elvetica presso la Santa Sede. Ha fatto gli onori di casa il Dott. Fabio Colagrande, redattore di Radio Vaticana.

Introducendo l’incontro, il Dott. Colagrande ha esordito dicendo che il volume di Matteo Cantori va a colmare un vuoto che era avvertito anche dagli operatori del mondo della comunicazione. Il lavoro, rigoroso e scientifico e allo stesso tempo divulgativo, ha un taglio storico e aiuta a comprendere il compito di un nunzio pontificio che può essere definito un “ambasciatore sui generis” poiché unisce alle tradizionali funzioni diplomatiche quelle pastorali. Proprio giovedì scorso il Papa, in visita alla Pontificia Accademia Ecclesiastica, l’istituzione che ha il compito di formare i diplomatici della Santa Sede, ha detto che l’opera del nunzio apostolico deve essere ispirata a intelligenza, arte e carità. Possiamo dire che sotto il pontificato di Papa Francesco i nunzi saranno chiamati a disegnare una geopolitica della misericordia attraverso una diplomazia della tenerezza.

Mons. Tonucci ha affermato che il lavoro che si svolge nelle nunziatura, come quello nelle ambasciate, è poco conosciuto e questo non permette di rendersi conto di quanto le ambasciate siano strumenti di dialogo sincero, aperto e schietto. Facendo una battuta, il prelato ha affermato che i politici combinano i guai e i diplomatici li risolvono! Nel suo servizio, un nunzio apostolico è chiamato a gestire i rapporti fra la Santa Sede e gli stati, proprio come farebbe qualsiasi altro diplomatico. Inoltre egli si interessa dei cattolici che vivono nello stato nel quale è accreditato. La sua attività è molto più sbilanciata su questo versante. In particolare, suo gravissimo compito è quello di aiutare il Papa nella scelta di chi può essere vescovo. Nella sua attività di ambasciatore del Papa, il nunzio non crea interferenze o sovrapposizioni con l’episcopato locale, poiché egli può intervenire direttamente nella vita della Chiesa locale solo se espressamente richiesto dalla Santa Sede. Il testo di Matteo Cantori aiuta ad addentrarsi in queste dinamiche e, come già detto, colma un vuoto, poiché testi autorevoli come quello di Mons. Cardinale e di Mons. Oliveri non sono più in commercio.

Ha preso poi la parola Sua Eccellenza Pierre-Yves Fux che ha ricordato come una volta, durante un viaggio in treno, un abate gli abbia chiesto come mai la Santa Sede non si decida a chiudere le nunziature. L’episodio denota ancora una volta come il lavoro delle nunziature sia sconosciuto e sottovalutato. La lettura del volume di Matteo Cantori avrebbe potuto dare a quell’abate una esauriente risposta! Il nunzio è un po’ come il decano del corpo diplomatico ed è in questo ambiente una figura più stabile rispetto a quella degli ambasciatori che cambiano sede diplomatica ogni 4 anni. Inoltre, il nunzio, quando scoppia una guerra e le ambasciate hanno l’obbligo di essere evacuate, è sempre l’ultimo ad abbandonare il suo ufficio. Per queste caratteristiche è diventato un importante punto di riferimento nel mondo delle relazioni internazionali. Per quanto riguarda l’attività diplomatica della Confederazione Svizzera e della Santa Sede si possono notare alcune affinità: sia la Svizzera che la Città del Vaticano sono stati neutrali, entrambe hanno una naturale vocazione nella promozione del diritto umanitario. Non bisogna poi dimenticare che fra gli svizzeri vengono reclutati gli uomini che difendono la vita del Papa. Nell’attuale contesto storico, oltre alla diplomazia degli stati, si rivela particolarmente preziosa quella delle religioni, portata avanti proprio dai nunzi.

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imageLa Madonna Sistina è un’opera di Raffaello, dipinta fra il 1513 e il 1514, ovvero pochi anni prima dell’inizio della riforma protestante, che sarebbe scaturita nel 1517 con l’affissione delle 95 tesi di Lutero sul portone della cattedrale di Wittenberg. Raffaello morì nel 1520, l’anno in cui Lutero scrisse tre opuscoli con i quali ruppe definitivamente con la Chiesa cattolica.

Alla luce di questi dati cronologici, è evidente che fra il dipinto di Raffaello e la riforma protestante non ci possa essere nessun tipo di collegamento, eppure la Madonna Sistina sembra offrire in anticipo delle risposte a quelle che saranno le concezioni luterane sulla salvezza e sulla chiesa.

Nella visione protestante, la salvezza è offerta esclusivamente da Gesù Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini. Qui invece Raffaello sembra esporre in immagini quella che è la visione cattolica: Gesù, principale mediatore fra Dio e gli uomini, è offerto ai fedeli-spettatori per il tramite di altri mediatori che in qualche modo cooperano all’opera di salvezza: sua madre, una santa e un papa.

Raffaello ha dipinto Maria nel gesto di donarci Gesù. Nella Madre che ci offre il Figlio, sta tutto il paradosso di un Dio che viene a salvarci attraverso una sua creatura: la nostra redenzione inizia con la mediazione di Maria.

Un ulteriore ruolo di mediazione è svolto dai santi. Questa azione di intercessione è rappresentata da Santa Barbara, riconoscibile dalla torre alle sue spalle. La Santa, inginocchiata alla sinistra della Madonna, rivolge il suo sguardo compassionevole verso l’umanità peccatrice.

Anche la Chiesa svolge una mediazione fra Dio e gli uomini. Questa sua funzione è rappresentata da Papa Sisto che possiamo vedere, anch’egli inginocchiato, alla destra di Maria. Il Pontefice rivolge lo sguardo verso verso Maria e Gesù, mentre con la mano destra mostra loro gli uomini.

Nella visione Luterana, la Chiesa è costituita dai santi che solo Dio conosce e dunque è una realtà esclusivamente spirituale. Per i cattolici invece, la chiesa è una realtà ben riconoscibile e visibile sintetizzata nel dipinto di Raffello dalla Madonna (da sempre icona della Chiesa), da Papa Sisto (aspetto istituzionale) e da Santa Barbara (aspetto carismatico).

Questa “triade” nel dipinto sovrasta due angioletti pensosi e che richiamano quella che nella storia dell’arte è il tema dell’invidia degli angeli. Nelle antiche icone della Natività gli angeli osservavano con una certa perplessità la nascita di Gesù, perché si stavano rendendo conto che la salvezza sarebbe venuta dal Verbo incarnato e non da una creatura puramente spirituale come loro.

Allo stesso modo, in questo dipinto l’idea di una chiesa visibile sembra trionfare su una realtà meramente spirituale. È la glorificazione del terreno, del materiale e del visibile in una logica che ricorda il motto “Caro cardi salutis” (= la carne è il cardi e della salvezza) di Tertulliano.

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Anche se datato, Da Malthus al razzismo verde di Antonio Gaspari, non perde mai di attualità, poiché i temi ecologici oggi sono molto presenti nel pubblico dibattito. Se da una parte, giustamente, ci si preoccupa per la cura della nostra casa comune, dall’altra si ignorano quasi completamente le ombre e le molteplici ambiguità insite nel pensiero di scienziati, naturalisti e studiosi che possono essere considerati i padri dell’odierno ambientalismo.

Per questo l’autore ha raccolto nel suo libro numerose biografie di coloro che hanno influito sul nostro modo di pensare la questione ambientale, mettendone in luce alcune contraddizioni. Si parte da Robert Malthus (1766-1834), un pastore anglicano, noto per le sue teorie sulla popolazione. Secondo Malthus, la popolazione tende a crescere in progressione geometrica (1,2,4,8, ecc.) mentre le risorse crescono in progressione matematica (1,2,3,4, ecc.). Per Malthus, ciò avrebbe portato nel tempo a una penuria di risorse se non si fosse intervenuti per tempo. La soluzione, secondo il pastore anglicano, doveva essere necessariamente quella del controllo delle nascite, cioè mantenere basso e costante il numero della popolazione mondiale.

Malthus sembrava ignorare il fatto che l’uomo, attraverso la sua intelligenza e l’uso della tecnologia, riesce a migliorare le proprie condizioni di vita e che dunque l’essere umano non può essere considerato un problema. Inoltre, la sua teoria apriva le porte a inquietanti domande: come si sarebbe attuato il controllo delle nascite? Chi avrebbe dovuto rinunciare a riprodursi? E chi invece avrebbe avuto il diritto di perpetuare la specie?

Ispirandosi alle teorie di Malthus, Charles Darwin (1809-1882) formulò la teoria dell’evoluzione, secondo la quale gli esseri viventi si evolvono attraverso la selezione naturale: solo i più forti resistono, mentre i più deboli soccombono.

Molto spesso si pensa, in modo semplicistico, che la Chiesa non abbia accolto la teoria dell’evoluzione perché essa declasserebbe a “favoletta” la storia di Adamo ed Eva e, conseguentemente, farebbe venir meno l’origine divina della famiglia umana. In realtà la Chiesa si è subito preoccupata per le conseguenze morali e antropologiche della teoria dell’evoluzione perché questa avrebbe potuto giustificare e alimentare, come poi di fatto è accaduto, le diseguaglianze fra gli uomini.

Francis Galton (1822-1911), sulla scia delle teorie del cugino Darwin, pensò che la selezione naturale dovesse ora essere portata avanti dall’uomo al fine di migliorare la specie umana: solo i migliori dovevano riprodursi, mentre ai cretini e agli idioti tale possibilità doveva essere preclusa. Galton chiamò questa selezione artificiale eugenetica.

È impressionante come le idee di Darwin e Galton furono accolte ed utilizzate allo stesso tempo da liberali, socialisti e nazisti in paesi assai diversi fra loro come Stati Uniti (primo paese ad adottare una legge ispirata all’eugenetica nel 1907), Svezia (una legge eugenetica fu in vigore dal 1934 fino addirittura al 1976) e Germania (la legge risale al 1933 e fu uno dei primi provvedimenti presi da Hitler).

La teoria dell’evoluzione influenzò anche Herbert Spencer (1820-1903) che l’applicò in campo economico e sociale dando vita al darwinismo sociale. Secondo Spancer, lo stato non deve intervenire in maniera sussidiaria per difendere i poveri, i deboli e gli ammalati, perché si andrebbe ad aiutare la parte più infima della società, consentendole di sopravvivere. Dunque, secondo Spencer, gli svantaggiati dovrebbero essere abbandonati al loro destino al fine di fare emergere solo la parte forte della società.

A questo modello “anti-solidale” non sfuggì neppure Ernst Haeckel (1834-1919), lo scienziato che coniò il termine “ecologia”. In un passo della sua Storia della creazione naturale afferma che il modello di sviluppo delle odierne società si dovrebbe basare su quanto messo in pratica nella antica città di Sparta, dove tutti i bambini deboli, ammalati o fisicamente inidonei venivano soppressi.

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Il cristianesimo, essendo una religione, si preoccupa innanzitutto del rapporto di Dio con l’uomo. Eppure è impressionante vedere come questa religione abbia influito in modo positivo sui più vari campi dell’esperienza umana. La grande storia della carità, scritto da Francesco Agnoli, mostra come la visione cristiana abbia permesso alla medicina di svilupparsi ed evolversi.

L’autore, come ha fatto già in altri suoi libri, mette a confronto il cristianesimo con altre visioni ed esperienze religiose e mostra come solo all’interno del cristianesimo sia stata possibile una particolare alleanza fra religione e medicina.

Se, in effetti, i greci sono stati i primi a interessarsi in modo teorico alla cura del corpo, solo col cristianesimo è nata quell’istituzione grazie alla quale i malati sono concretamente curati: l’ospedale. L’autore mette a confronto la visione greca e quella cristiana: nella prima Dio (il Dio dei filosofi) è oggetto di amore, ma non ama nessuno, perché amare vorrebbe dire abbassarsi e degradarsi; nel cristianesimo, invece, Dio è appassionato per la sua creatura e interviene per salvarla, al punto di mandare il suo unico Figlio.

L’attenzione per l’altro, specialmente se malato e sofferente, diventa allora nel cristianesimo emulazione della passione di Dio per l’essere umano. È grazie a questa rivoluzione che i cristiani non sfuggono davanti alle epidemie, come la peste, ma si mettono in moto per alleviare le sofferenze dei loro simili.

Sono poi i misteri dell’Incarnazione e della Passione le fonti che ispirano l’agire di molti cristiani: se il Verbo di Dio è stato bambino, allora il fanciullo acquisisce una nuova dignità che la cultura antica non gli riconosceva. Ecco allora che si spiegano la nascita di strutture specifiche per la cura dell’infanzia come brefotrofi e orfanotrofi.

L’immagine di Cristo sofferente si concretizza in ogni malato e dunque le cure prestate ai pazienti diventano opere di bene verso il Signore Gesù. Ma è lo stesso Gesù che ha guarito da malattie e sofferenze e dunque l’azione medica diventa un’estensione della opera salvatrice di Cristo.

Nel libro si fa più volte accenno a come anche la bellezza sia stata impiegata per la cura dei malati: negli ospedali non mancavano opere d’arte o della buona musica! Basta pensare a nomi come l’ospedale di Santa Maria della Scala a Siena o l’Hotel Dieu a Beaune in Francia.

Non mancano i nomi e le storie di santi e sante che hanno speso la loro vita in favore dei malati e dei bisognosi come Fabiola, che insieme al senatore Pammachio costruì quello che può essere considerato il primo ospedale della storia, Francesco che abbracciò un lebbroso dando a questo tipo di malati nuova dignità, Camillo de Lellis e Giovanni di Dio e molti altri.

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Sulla scia di una certa cultura ottocentesca, impastata di positivismo, a scuola abbiamo spesso imparato che fra religione e scienza ci sia una radicale opposizione riassunta nel motto “o si pensa o si crede”. Ma questa, appunto, è il punto di vista di una istanza culturale che vede solo nella materia il compimento dell’essere. Per i credenti la scienza è un modo per conoscere e avvicinarsi al Creatore di tutte le cose.

Generalmente si crede che gli scienziati siano atei poiché lo spirito religioso si opporrebbe alla ricerca. Ma le cose non stanno proprio così. Lo sa bene Francesco Agnoli che ha scritto diversi libri e opuscoli sul rapporto fra fede e scienza. Fra questi vorremmo segnalare La forza della preghiera nelle parole degli scienziati, edito da Fede & Cultura.

L’autore, oltre a riportare le preghiere di alcuni illustri scienziati come Newton, Galvani e Maxwell, ripropone un testo sulla preghiera di Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina nel 1912 che una decina di anni prima del conferimento del prestigioso riconoscimento si era convertito al cattolicesimo durante un viaggio a Lourdes.

Fra i testi che Agnoli prende in considerazione, ci vorremmo fermare su queste parole di Giovanni Keplero, scopritore delle leggi che trattano del moto dei pianeti e che portano il suo nome. Così scrive lo scienziato al termine della sua opera Harmonices mundi, pubblicata nel 1618:

“A te che con la luce della natura alimenti in noi il desiderio della tua grazia onde possiamo godere della tua gloria, a te rendo grazie, mio Signore e mio Dio, perché tu mi hai fatto provare gioie e godimento in tutto ciò che tu hai creato, in tutto tutto ciò che è frutto delle tue mani preziose. Vedi, o Signore, io ho completato questo lavoro per il quale ero stato chiamato. Per farlo ho utilizzato quella forza della mente che tu mi hai donato. Ho mostrato agli uomini la magnificenza della tua opera o almeno quella parte della tua infinita grandezza che la mia mente è riuscita a capire”.

Queste parole, in trasparenza, ci mostrano quale back-ground filosofico e culturale abbia permesso la nascita della scienza in ambito europeo e cristiano. L’universo viene concepito come un orologio meccanico (Creato), opera di un orologiaio (Dio). Non si tratta, come nell’antichità, di una natura divinizzata e abitata da spiriti ai quali sono attribuiti i fenomeni naturali.

Fare scienza allora significa, come per Galilei, cercare nel Creato le impronte del Creatore: la conoscenza delle leggi che Dio ha impresso nella natura, non può fare altro che farci conoscere meglio la volontà del Creatore.

Nelle parole dello scienziato, tutto sembra afferire alla logica del dono: l’intero universo, come le facoltà umane per comprenderlo, provengono dal Creatore. Il lavoro dello scienziato è considerato da Keplero come una vera e propria vocazione: è Dio che chiama l’uomo di scienza a scoprire le leggi che regolano l’universo e ciò può avvenire solo attraverso un atto di contemplazione e di stupore per le meraviglia delle cose create. Per un tale compito, Keplero ritiene che sia necessaria una buona dose di umiltà che nasce dalla sproporzione fra la grandezza dell’universo che si vuole conoscere e la piccolezza dell’uomo che la vuole comprendere.

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Dopo Viaggio nella Cappella Sistina (Rizzoli, 2013) Alberto Angela continua a esplorare le meraviglie del Vaticano con un libro dedicato a dove tutto è nato. San Pietro. Segreti e meraviglie in un racconto lungo duemilla anni è la affascinante storia di uno dei luoghi più cari ai cattolici di tutto il mondo.

Il volume, che si articola in 9 capitoli, ripercorre, seguendo un percorso storico, le tappe dello sviluppo della basilica vaticana. Ogni paragrafo, della lunghezza di un articolo di giornale, è corredato da un ottimo apparato iconografico che aiuta il lettore ad avvicinarsi a questo luogo straordinario sia dal punto di vista storico, che da quello artistico e religioso.

Forse i capitoli più interessanti sono i primi tre, perché raccontano di fatti e luoghi che solitamente sfuggono al pellegrino e/o turista. Il primo capitolo è dedicato alla necropoli vaticana che è possibile visitare solo su prenotazione. Si tratta dei un’antica necropoli pagana che oggi si trova nella zona corrispondente alla navata centrale, (nella parte compresa fra il baldacchino del Bernini e metà navata) e che nell’antichità si trovava a ridosso del Circo di Nerone.

In mezzo a questi sepolcri pagani, in quello che gli studiosi chiamano “Campo P”, negli anni ’60 del primo secolo venne sepolto San Pietro. Un centinaio di anni dopo, i cristiani, per conservare la memoria del luogo dove si trovavano le spoglie del Principe degli Apostoli, costruirono un piccolo monumento funebre, chiamato “Trofeo di Gaio”.

Nel secondo capitolo si parla della costruzione dell’antica Basilica di San Pietro. Quella che vediamo oggi infatti è un rifacimento del XVI secolo, ben diversa dall’originale. L’antica Basilica di San Pietro fu costruita dall’imperatore Costantino nel luogo dove sorgeva la necropoli. Essa si presentava a cinque navate. Vi si accedeva dopo aver attraversato un quadriportico. Per custodire e proteggere il Trofeo di Gaio (e la sottostante tomba di Pietro), Costantino fece edificare la cosiddetta “Memoria Costantiniana”.

Nel terzo capitolo l’autore si sofferma su parecchi “cimeli” dell’antica basilica che sono stati reinseriti in qualche modo nell’attuale basilica. Basta pensare al grande disco di porfido rosso che si trova appena si varca l’ingresso della chiesa: si tratta del luogo dove la notte di Natale dell’800 Carlo Magno venne incoronato imperatore. Sullo stesso disco di porfido verranno incoronati in seguito altri imperatori e si può dire che qui è passata la storia dell’Europa.

Ma che dire poi della statua di San Pietro di Arnolfo di Cambio, della “Cattedra di San Pietro” inglobata in quella monumentale del Bernini, del gallo che oggi si trova nel museo e che nel passato si trovava sul campanile della chiesa, di questi e di altri oggetti che hanno una storia e un segreto da raccontare?

Davvero un bel libro, facile da leggere e piacevole da guardare con tutte le sue belle immagini.

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Si è svolto a Madrid dal 9 all’11 dicembre un corso di formazione sui temi della comunicazione rivolto ai membri della Consiglio delle Conferenze E episcopali Europee (CCEE). Fra i vari esperti di comunicazione che hanno tenuto il corso, c’era anche Martina Pastorelli, fondatrice di Catholic Voices Italia (www.catholicvoicesitalia.it). L’abbiamo intervistata per fare un punto della situazione sul rapporto fra Chiesa e comunicazione.

Come è nato il corso che si è tenuto a Madrid?

Penso che il corso, che è stato promosso dalla Commissione Episcopale per le Comunicazioni Sociali del CCEE e organizzato dalla Fondazione Carmen de Noriega, sia frutto della volontà della Chiesa di “leggere i segni dei tempi”: si sta facendo strada la consapevolezza che per rispondere alle sfide poste dalla società attuale si debbano cercare modi che comunichino con linguaggio comprensibile la perenne novità del Cristianesimo. In questo senso, l’approccio di Catholic Voices rappresenta uno strumento prezioso a disposizione dei cattolici per dialogare con la cultura contemporanea, giacchè li aiuta a rendere vivibili e appetibili i valori cristiani anche per persone di sensibilità diverse. Si tratta di un passaggio fondamentale, perché come ci insegna Papa Francesco, è da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali. I vescovi hanno apprezzato molto come il reframing di Catholic Voices metta la comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro.

Quali temi in particolare sono stati affrontati?

Tutti quelli su cui la Chiesa e la società civile tendono ad entrare in collisione (aborto, famiglia, sessualità, procreazione assistita, libertà religiosa, ecc): Catholic Voices le chiama ‘questioni nevralgiche’ perché toccano i nervi scoperti delle persone, e le traduce in occasioni per vivere e comunicare la fede in un modo tale che gli altri percepiscano l’impegno della Chiesa e dei cattolici come contributo al bene comune e non come un pericolo da cui difendersi.

Possiamo dire che la Chiesa è nata come strumento di comunicazione per annunciare a tutti la buona notizia di Cristo morto e risorto. Quali sono oggi i punti di forza della Chiesa nel campo della comunicazione?

A dispetto delle apparenze, i tempi che stiamo vivendo sono una grande opportunità per una nuova evangelizzazione. Per attuarla – ci spiega il Papa – alla Chiesa serve un nuovo slancio missionario, che richiede il coraggio e la pazienza di ascoltare l’altro per poi andargli incontro partendo da ciò che abbiamo in comune, in primis il bisogno di amare ed essere amati. Punto di forza della Chiesa è proprio il suo essere “esperta in umanità”. Se aggiungiamo anche quella straordinaria risorsa (vera e propria “medicina”) che è la misericordia – intesa come capacità di mostrare il volto misericordioso di Cristo – si capisce che la Chiesa ha davanti a sé un’occasione straordinaria per arrivare al mondo intero.

E invece quali sono le criticità? Quali sono gli errori più frequenti?

Sono diversi: ad esempio chiudersi nel recinto della rabbia e delle paure (per questo il Papa parla invece sempre di aprirsi); praticare quella che Francesco ha definito “fede da tabella” (che esclude chi dà fastidio o non rispetta i nostri ritmi); lavorare solo con formule che, pur vere, non vengono più intese nel mondo di oggi. Anzichè predicare complesse dottrine – il che ovviamente non esclude l’annuncio della Verità – oggi serve incontrare, dialogare e testimoniare per trasmettere la bellezza della proposta cristiana, la sua “convenienza” inclusiva, il suo impegno per la dignità di tutto l’uomo e di ogni uomo.

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La Compagnia di San Giovanni Damasceno, il gruppo facebook che raggruppa oltre trecento appassionati di arte sacra, compie un anno! È stata “fondata” infatti il 4 dicembre (giorno nel quale la Chiesa fa memoria di San Giovanni Damasceno) dello scorso anno dal nostro redattore Nicola Rosetti che abbiamo intervistato.

Nicola, come è nata l’idea di creare un gruppo facebook di questo tipo?

Da quando ho iniziato a insegnare religione, mi sono sempre servito delle immagini artistiche che mi hanno aiutato a raccontare, ad esempio, le storie della bibbia. La visione delle immagini facilita molto la comprensione dei testi sacri e dunque per me è diventato abituale fare lezione con parole e immagini. Molti colleghi lavorano nello stesso modo. Poi ho iniziato a vedere che c’erano tante persone che, in altri ambiti e per altre finalità, erano interessate all’arte sacra e così ho cercato di metterle in contatto nel modo oggi più semplice e cioè attraverso un gruppo facebook.

Perché il gruppo è dedicato a San Giovanni Damasceno?

San Giovanni Damasceno è una figura quasi del tutto sconosciuta e tuttavia è un personaggio fondamentale nella storia della Chiesa. È l’ultimo Padre della Chiesa vissuto a cavallo fra il VII e l’VIII secolo ed è l’uomo al quale dobbiamo essere grati se nelle nostre chiese possiamo trovare così tante belle opere d’arte. Infatti c’è stato un momento nella storia della Chiesa nel quale ogni immagine sacra sarebbe potuta sparire per sempre, infatti, l’imperatore bizantino Leone III Isaurico voleva che nei luoghi di culto non vi fossero immagini in ossequio alla trascendenza di Dio. San Giovanni Damasceno si oppose strenuamente a questa visione aniconica, spiegando che, nel momento in cui il Verbo di Dio si è fatto carne e ha preso il volto di Gesù di Nazaret, per i cristiani è possibile rappresentare il divino. Le tesi di San Giovanni Damasceno vennero riprese durante il secondo Concilio di Nicea che condannò l’iconoclastia e stabilì una volta per tutte la liceità delle immagini. Possiamo dire che col Secondo Concilio di Nicea, il tema dell’immagine è entrato a far parte del patrimonio dogmatico del cristianesimo: l’arte non è qualcosa di accessorio o secondario nella vita della Chiesa, anzi, essa svolge a pieno titolo una vera e propria azione evangelizzatrice! Infine, è importante notare che, anche a livello “laico”, se oggi viviamo nella “società dell’immagine”, lo dobbiamo a San Giovanni e al Secondo Concilio di Nicea!

Chi fa parte della Compagnia di San Giovanni Damasceno?

Oltre agli insegnanti di religione che ho già menzionato, fanno parte del gruppo tanti appassionati di iconografia, diverse persone che operano all’interno di musei diocesani ed esperti di arte sacra.

In che cosa consiste l’attività del gruppo?

Si tratta di un gruppo spontaneo, creato “dal basso” e pertanto non ci sono regole definite. Molto semplicemente, chi fa parte del gruppo posta sullo spazio comune temi che possono interessare agli altri membri. Condividiamo materiale fotografico, link su siti o articoli che parlano di arte sacra, titoli di libri, esperienze ed eventi. È bello quando, ad esempio, il responsabile di un museo ci parla di qualche iniziativa intrapresa per rendere più fruibili le opere d’arte di cui i musei diocesani sono pieni: l’esperienza di uno può stimolare e arricchire gli altri.

Concludiamo con una domanda più personale. Quale opera d’arte ti affascina di più o senti più vicina?

Per la profondità dei significati, credo che i dipinti di Caravaggio nella Cappella Contarelli siano qualcosa di insuperato! Però se dovessi scegliere un’opera d’arte che sintetizzi allo stesso tempo il mio lavoro e lo spirito della Compagnia, sceglierei senza ombra di dubbio il San Luca dipinto da El Greco. In questa opera, l’evangelista mostra un vangelo aperto su una pagina scritta e su una illustrazione: è come se il pittore ci volesse ribadire ancora una volta l’inscindibile binomio parola-immagine

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