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ROMA – Mercoledì 13 maggio alle ore 19.00 presso la parrocchia San Roberto Bellarmino è stato presentato il volume La Parola secondo Giovanni. Riflessioni sul lessico del quarto Vangelo del Prof. Tito Pasqualetti, prima docente di lettere classiche presso il Liceo Classico Leopardi e poi preside del Liceo Scientifico di San Benedetto del Tronto.

Si è confrontato col l’autore don Enrico Ghezzi, noto biblista e insigne studioso dell’opera giovannea. L’incontro è stato moderato dal Prof. Sergio Ventura, docente di Religione Cattolica presso il Liceo Classico Tasso.

Pasqualetti ha esordito raccontando come sia nato il libro: a seguito del suo pensionamento, ha avuto modo di leggere il Vangelo di Giovanni nell’originale greco. Si è trattato di una seconda lettura, visto che, all’inizio della sua carriera, aveva scelto di far leggere delle pagine di Giovanni ai suoi alunni del ginnasio in un’edizione pubblicata dalla Sei.

Il volume, seguendo la narrazione evangelica, analizza il significato dei termini più importanti usati da Giovanni. Pasqualetti si è avvicinato al testo con un approccio letterario e filologico rilevando come i vocaboli di Giovanni, in molti casi, conservino i significati del greco classico, mentre, in altri, assumono una connotazione originale oppure sono proprio inventati dal quarto evangelista.

Ad esempio, la parola “doxa“, che nel greco classico vuol dire “opinione”, in Giovanni assume il significato di “gloria”. Oppure Giovanni ha inventato il sostantivo “agape” (=amore). Infatti, nel greco classico esiste solo il verbo “agapao”, ma col significato di “salutare”.Si può dunque affermare, senza timore di essere smentiti, che col vangelo nascono una nuova lingua e un nuovo pensiro.

Un tale approccio permette di avvicinare maggiormente la mente dell’autore del quarto vangelo. Il Prof. Pasqualetti ha sottolineato come questo tipo di lavoro consenta una comprensione più profonda e una maggiore aderenza al testo originale. Lo studioso ha portato a titolo d’esempio un episodio personale.

Quando era bambino al catechismo, ascoltando la parabola del figliuol prodigo (nel vangelo di Luca), aveva sentito che il protagonista del racconto si cibava di ghiande. Ha scoperto poi che nell’originale greco si parla invece di carrubbe, un cibo sicuramente molto più gustoso del primo!

Ma passando dalle carrubbe a un nutrimento molto più importante per il cristiano, quello eucaristico, il Prof. Pasqualetti ha sottolineato come nel sesto capitolo ci si imbatta nel verbo “trogo” che propriamente vuol dire “rosicchiare” ed è riferito alla carne che Gesù darà per la salvezza del mondo. Ciò indica lo stile realistico del linguaggio di Giovanni che a volte non disprezza l’uso di parole di uso popolare.

Ha preso poi la parola don Enrico Ghezzi che ha fornito una lettura teologica sottolineando come già dal secondo secolo, con Clemente Alessandrino, il Vangelo di Giovanni sia stato definito spirituale: esso racconta in primo luogo dell’intimità fra Gesù e suo Padre, la stessa intimità che Gesù partecipa ai suoi discepoli. Infine questo amore dei discepoli diventa fonte di evangelizzazione.

Don Ghezzi si è poi soffermato sulla parola Logos, domandandosi come mai Giovanni abbia usato proprio questo termine e non, ad esempio, Sophia (=Sapienza). Il biblista ha sottolineato come questo vocabolo sia una sorta di ponte fra il cristianesimo e la cultura greca diffusa nel Mediterraneo e in particolare nell’area anatolica, dove il vangelo si è formato.

Il Logos infatti era per i greci un principio spirituale immanente al mondo. Nel momento in cui Giovanni afferma che il Logos era presso Dio e che questo stesso Logos si è fatto carne, si compie un’operazione culturale straordinaria e impensabile per il mondo antico.

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