Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Interviste

Lunedì 12 ottobre alle 19.25 andrà in onda su TV2000 (canale 23 del digitale terrestre) la prima puntata del programma settimanale “Buongiorno Professore” condotto da Andrea Monda, docente di Religione Cattolica (IRC) in un liceo di Roma, saggista e autore di vari libri su Tolkien, Lewis e Chesterton. Per capire meglio di cosa si tratta, abbiamo intervistato il Prof. Monda.

Professore, quale format è stato scelto per questo programma?

Nel primissimo pomeriggio, subito dopo il termine delle lezioni della mattina, in una classe del liceo Albertelli (dove insegno religione da diversi anni), rimarranno alcuni studenti con me per “rifare” insieme una lezione, questa volta però filmati dalle discrete telecamere di TV2000. Partendo dai primi di ottobre e finendo a maggio, il programma seguirà un intero anno scolastico, con i ritmi, le pause, i picchi e i programmi propri di un normalissimo anno scolastico (così ad esempio non ci saranno lezioni a Natale e a Pasqua).

È la prima volta che la tv si occupa in questo modo dell’Ora di Religione. Cosa significa ciò a livello culturale e mediatico?

È una novità in effetti. Lo prendo come un segnale positivo, innanzitutto di un rinnovato interesse da parte dei vescovi italiani. Forse si è acquisita una nuova consapevolezza. Nei fatti un prof di religione incontra ogni settimana tra i 400 e i 500 bambini o ragazzi, nel mio caso io incontro circa 500 adolescenti a cui mi è chiesto di parlare loro di Dio, del senso religioso e dell’avventura del cristianesimo. Quale parroco oggi può vantare simili numeri? È un punto privilegiato di osservazione (e di azione) quello del prof di religione, non può essere trascurato: davanti a me ogni anno sfila l’Italia del futuro, io vedo il nostro paese con 5-10 anni di anticipo. Non è poco.

Qual è il segreto per una buona riuscita dell’Ora di Religione?

Da una parte il segreto è lo stesso che vale anche per le altre materie: la competenza e la passione del professore. Si deve essere bravi nella materia, ma anche bravi a comunicare. E non si comunica solo con l’arte oratoria, ma con la vita. Qui forse la religione segna un po’ una differenza con le altre materie. Io se non sono motivato non riesco a motivare i miei alunni, se non ho passione per quello che insegno non appassiono nessuno, e forse qui si tratta anche di crederci. Se manca quella trasparenza della vita, quella coerenza tra ciò che si dice e ciò che si è, tutto crolla. I ragazzi, anche quelli meno capaci a scuola, hanno un fiuto raffinatissimo per cogliere subito se un professore è motivato, appassionato o se è uno che sta lì a scaldare la sedia, attenendosi al mansionario per intascare lo stipendio a fine mese. Il prof burocrate è diffuso ma è anche un evidente e fastidioso controsenso.

Qual è il maggiore contributo che l’IRC offre nella scuola italiana?

La libertà. È l’unica ora facoltativa. Da questo punto di vista è l’unica affidata totalmente alla bravura del professore. La matematica è quella cosa lì e la devi studiare così come è, anche se sei al classico e non ti piace.. è obbligatoria. L’ora di religione, quando tra il prof e l’alunno può nascere un vero rapporto educativo (perché non c’è il terrore dell’interrogazione, del voto, della media…), è il momento in cui gli alunni si aprono, si sciolgono, affrontano temi che toccano da vicino i nodi della loro esistenza di adolescenti, molto agitata dunque. Il cristianesimo è poi la religione della libertà, perché il volto di Dio è il volto dell’amore: liberamente dato e liberamente accolto, o rifiutato. A fianco di questa libertà, è fin troppo ovvio che l’IRC permette di “leggere” il passato e il presente con una profondità e precisione che non si trovano nelle altre discipline. Pensiamo soltanto alla storia dell’arte, alla poesia, alla letteratura.. Il cristianesimo è la chiave di lettura del mondo occidentale, è il “grande codice” come diceva Northrop Frye.

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ROMA – Sabato 10 ottobre alle 15.20 andrà in onda su TV2000 (canale 23 del digitale terrestre) la prima puntata del programma settimanale “Il prof. di religione” condotto da Andrea Monda, docente di Religione Cattolica (IRC) in un liceo di Roma, saggista e autore di vari libri su Tolkien, Lewis e Chesterton. Per capire meglio di cosa si tratta, abbiamo intervistato il Prof. Monda.

Professore, quale format è stato scelto per questo programma?

Nel primissimo pomeriggio, subito dopo il termine delle lezioni della mattina, in una classe del liceo Albertelli (dove insegno religione da diversi anni), rimarranno alcuni studenti con me per “rifare” insieme una lezione, questa volta però filmati dalle discrete telecamere di TV2000. Partendo dai primi di ottobre e finendo a maggio, il programma seguirà un intero anno scolastico, con i ritmi, le pause, i picchi e i programmi propri di un normalissimo anno scolastico (così ad esempio non ci saranno lezioni a Natale e a Pasqua).

È la prima volta che la tv si occupa in questo modo dell’Ora di Religione. Cosa significa ciò a livello culturale e mediatico?

È una novità in effetti. Lo prendo come un segnale positivo, innanzitutto di un rinnovato interesse da parte dei vescovi italiani. Forse si è acquisita una nuova consapevolezza. Nei fatti un prof di religione incontra ogni settimana tra i 400 e i 500 bambini o ragazzi, nel mio caso io incontro circa 500 adolescenti a cui mi è chiesto di parlare loro di Dio, del senso religioso e dell’avventura del cristianesimo. Quale parroco oggi può vantare simili numeri? È un punto privilegiato di osservazione (e di azione) quello del prof di religione, non può essere trascurato: davanti a me ogni anno sfila l’Italia del futuro, io vedo il nostro paese con 5-10 anni di anticipo. Non è poco.

Qual è il segreto per una buona riuscita dell’Ora di Religione?

Da una parte il segreto è lo stesso che vale anche per le altre materie: la competenza e la passione del professore. Si deve essere bravi nella materia, ma anche bravi a comunicare. E non si comunica solo con l’arte oratoria, ma con la vita. Qui forse la religione segna un po’ una differenza con le altre materie. Io se non sono motivato non riesco a motivare i miei alunni, se non ho passione per quello che insegno non appassiono nessuno, e forse qui si tratta anche di crederci. Se manca quella trasparenza della vita, quella coerenza tra ciò che si dice e ciò che si è, tutto crolla. I ragazzi, anche quelli meno capaci a scuola, hanno un fiuto raffinatissimo per cogliere subito se un professore è motivato, appassionato o se è uno che sta lì a scaldare la sedia, attenendosi al mansionario per intascare lo stipendio a fine mese. Il prof burocrate è diffuso ma è anche un evidente e fastidioso controsenso.

Qual è il maggiore contributo che l’IRC offre nella scuola italiana?

La libertà. È l’unica ora facoltativa. Da questo punto di vista è l’unica affidata totalmente alla bravura del professore. La matematica è quella cosa lì e la devi studiare così come è, anche se sei al classico e non ti piace.. è obbligatoria. L’ora di religione, quando tra il prof e l’alunno può nascere un vero rapporto educativo (perché non c’è il terrore dell’interrogazione, del voto, della media…), è il momento in cui gli alunni si aprono, si sciolgono, affrontano temi che toccano da vicino i nodi della loro esistenza di adolescenti, molto agitata dunque. Il cristianesimo è poi la religione della libertà, perché il volto di Dio è il volto dell’amore: liberamente dato e liberamente accolto, o rifiutato. A fianco di questa libertà, è fin troppo ovvio che l’IRC permette di “leggere” il passato e il presente con una profondità e precisione che non si trovano nelle altre discipline. Pensiamo soltanto alla storia dell’arte, alla poesia, alla letteratura.. Il cristianesimo è la chiave di lettura del mondo occidentale, è il “grande codice” come diceva Northrop Frye.

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Jessica Redeghieri insegna presso la scuola dell’infanzia di Novellara e lavora con gli adulti come formatrice. Fa parte di docenti virtuali, il gruppo facebook che raccoglie oltre 11.000 insegnanti che integrano la didattica tradizionale con le più​ n​uove tecnologie. Sul suo canale youtube ha realizzato oltre 160 video tutorial per aiutare altri insegnanti a destreggiarsi nella didattica virtuale. L’abbiamo intervistata per capire meglio le potenzialità​ c​he il web offre nel campo della didattica.

Quando e come ha iniziato ad appassionarsi alla didattica virtuale?

Le tecnologie sono da sempre una mia passione personale prima ancora che professionale. Ho sempre avuto sin da bambina una predilezione per i giochi elettronici, i videogiochi e il computer. Questa passione mi ha accompagnato negli anni e mi ha portato ad approfondire il grande tema delle tecnologie parallelamente agli studi pedagogici.

Durante gli anni di formazione universitaria e anche successivamente sono entrata in contatto con le teorie che prevedono un apporto attivo e creativo e una costruzione del proprio sapere da parte del bambino.

Avendo provato in prima persona quanto gli strumenti digitali possano essere uno stimolo per imparare in modo attivo, creativo e piacevole ho cercato di inserirli da subito, quando e dove possibile, all’interno dei percorsi e delle attività proposte ai ragazzi e ai bambini.

Non direi, quindi, di essermi appassionata alla didattica virtuale. Direi piuttosto che, l’utilizzo degli strumenti tecnologici, ovviamente accanto ad altri tipi di strumenti, è stato una naturale conseguenza delle mie scelte didattiche reali.

Come è​ p​ossibile utilizzare le moderne tecnologie a scuola?

Al di là dei singoli strumenti tecnologici che sono e rimangono mezzi, tutto dipende dalle scelte progettuali, metodologiche e strategiche, dell’insegnante.

A mio parere gli strumenti tecnologici (e pedagogici) da privilegiare sono quelli che permettono al bambino di creare qualcosa dando spazio quindi alla progettazione, alla ricerca, alla produzione e alla presentazione del proprio prodotto.

Solo alcuni esempi sono gli strumenti per la creazione di mappe mentali e concettuali (es. Bubbl.us, Mindomo), bacheche per la cura dei contenuti (es. Padlet, Symbaloo), presentazioni dinamiche (es. Prezi, Powtoon), video-racconti (es. Animoto, Slidestory), mappe geografiche (es. MyMaps, HistoryPin), lezioni (es. Blendspace, Edpuzzle).

Importante poi è favorire la relazione sostenendo il lavoro di gruppo, la condivisione e la creazione condivisa e avvalendosi anche di strumenti che privilegiano, quindi, l’interazione tra i ragazzi. Rispetto a questo tipo di strumenti vorrei citare tra tutti Google Drive, ambiente che permette, tra le altre funzioni, di creare documenti, fogli di lavoro, presentazioni (e molto altro) in modo condiviso quindi a più mani.

Se pensiamo, poi, alle relazioni non solo tra gli alunni ma anche tra gli alunni e l’insegnante possiamo citare gli strumenti che permettono di creare e gestire aule virtuali come Edmodo e Google Classroom e gli strumenti di videoconferenza come Hangouts e Skype.

Se, infine, vogliamo far sperimentare ai ragazzi le potenzialità dei reali strumenti tecnologici e quindi farli avvicinare ai “nuovi” ambiti di ricerca possiamo aprire le porte a temi come la robotica, l’animazione 3D, l’elettronica, la programmazione. Questo permetterà ai ragazzi non solo di apprendere attivamente ma anche di toccare con mano le tecnologie con cui, probabilmente, avranno a che fare nella loro vita futura sia professionale che personale.

Quale app utilizza maggiormente a scuola?

Per quanto riguarda la scuola negli ultimi anni abbiamo sfruttato soprattutto le potenzialità della robotica e della programmazione quindi utilizzo strumenti che mi permettano di affrontare questo tipo di tematiche che, anche per i bambini più piccoli, sono sempre un validissimo spunto di riflessione soprattutto se i percorsi proposti sono orientati alla scoperta attiva, alla creazione di prodotti e alla riflessione a piccolo e grande gruppo. Tra i software per laprogrammazione, ad esempio, ha avuto un forte impatto Kodu Game Lab e tra i robot il preferito per i più piccoli rimane BeeBot.

Quali sono i vantaggi nell’usare una didattica di questo tipo?

All’interno di un impianto didattico che privilegi l’apprendimento attivo da parte del bambino le tecnologie, se intese come strumenti di creazione, possono essere una fonte preziosa perché prima di ogni altra cosa permettono ai bambini di creare prodotti originali frutto di percorsi di progettazione unici e quindi estremamente personalizzati.

Secondo lei, la classe docente italiana è ​p​ronta ad affrontare questo nuovo approccio alla didattica?

Penso che al momento i docenti abbiano a disposizione una serie immensa di strumenti di formazione, informazione e approfondimento sia rispetto all’utilizzo tecnico delle tecnologie sia rispetto ai metodi e alle strategie più adeguati. Uno strumento prezioso è proprio il web perché, attraverso gruppi di discussione, siti, blog, canali e forum, ognuno può trovare infiniti spunti, risorse e occasioni di confronto. Numerosissimi sono, poi, i corsi che hanno come obiettivo quello di riflettere sull’utilizzo delle tecnologie nella didattica.

Penso che il cambiamento di approccio debba partire per lo più da una riflessione sui metodi di insegnamento che anche alla spinta delle tecnologie all’interno della didattica ha contribuito ad aprire, o meglio riaprire.

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Jessica Redeghieri insegna presso la scuola dell’infanzia di Novellara e lavora con gli adulti come formatrice. Fa parte di docenti virtuali, il gruppo facebook che raccoglie oltre 11.000 insegnanti che integrano la didattica tradizionale con le più​ n​uove tecnologie. Sul suo canale youtube ha realizzato oltre 160 video tutorial per aiutare altri insegnanti a destreggiarsi nella didattica virtuale. L’abbiamo intervistata per capire meglio le potenzialità​ c​he il web offre nel campo della didattica.

Quando e come ha iniziato ad appassionarsi alla didattica virtuale?

Le tecnologie sono da sempre una mia passione personale prima ancora che professionale. Ho sempre avuto sin da bambina una predilezione per i giochi elettronici, i videogiochi e il computer. Questa passione mi ha accompagnato negli anni e mi ha portato ad approfondire il grande tema delle tecnologie parallelamente agli studi pedagogici.

Durante gli anni di formazione universitaria e anche successivamente sono entrata in contatto con le teorie che prevedono un apporto attivo e creativo e una costruzione del proprio sapere da parte del bambino.

Avendo provato in prima persona quanto gli strumenti digitali possano essere uno stimolo per imparare in modo attivo, creativo e piacevole ho cercato di inserirli da subito, quando e dove possibile, all’interno dei percorsi e delle attività proposte ai ragazzi e ai bambini.

Non direi, quindi, di essermi appassionata alla didattica virtuale. Direi piuttosto che, l’utilizzo degli strumenti tecnologici, ovviamente accanto ad altri tipi di strumenti, è stato una naturale conseguenza delle mie scelte didattiche reali.

Come è​ p​ossibile utilizzare le moderne tecnologie a scuola?

Al di là dei singoli strumenti tecnologici che sono e rimangono mezzi, tutto dipende dalle scelte progettuali, metodologiche e strategiche, dell’insegnante.
A mio parere gli strumenti tecnologici (e pedagogici) da privilegiare sono quelli che permettono al bambino di creare qualcosa dando spazio quindi alla progettazione, alla ricerca, alla produzione e alla presentazione del proprio prodotto.

Solo alcuni esempi sono gli strumenti per la creazione di mappe mentali e concettuali (es. Bubbl.us, Mindomo), bacheche per la cura dei contenuti (es. Padlet, Symbaloo), presentazioni dinamiche (es. Prezi, Powtoon), video-racconti (es. Animoto, Slidestory), mappe geografiche (es. MyMaps, HistoryPin), lezioni (es. Blendspace, Edpuzzle).

Importante poi è favorire la relazione sostenendo il lavoro di gruppo, la condivisione e la creazione condivisa e avvalendosi anche di strumenti che privilegiano, quindi, l’interazione tra i ragazzi. Rispetto a questo tipo di strumenti vorrei citare tra tutti Google Drive, ambiente che permette, tra le altre funzioni, di creare documenti, fogli di lavoro, presentazioni (e molto altro) in modo condiviso quindi a più mani.

Se pensiamo, poi, alle relazioni non solo tra gli alunni ma anche tra gli alunni e l’insegnante possiamo citare gli strumenti che permettono di creare e gestire aule virtuali come Edmodo e Google Classroom e gli strumenti di videoconferenza come Hangouts e Skype.

Se, infine, vogliamo far sperimentare ai ragazzi le potenzialità dei reali strumenti tecnologici e quindi farli avvicinare ai “nuovi” ambiti di ricerca possiamo aprire le porte a temi come la robotica, l’animazione 3D, l’elettronica, la programmazione. Questo permetterà ai ragazzi non solo di apprendere attivamente ma anche di toccare con mano le tecnologie con cui, probabilmente, avranno a che fare nella loro vita futura sia professionale che personale.

Quale app utilizzi maggiormente a scuola?

Per quanto riguarda la scuola negli ultimi anni abbiamo sfruttato soprattutto le potenzialità della robotica e della programmazione quindi utilizzo strumenti che mi permettano di affrontare questo tipo di tematiche che, anche per i bambini più piccoli, sono sempre un validissimo spunto di riflessione soprattutto se i percorsi proposti sono orientati alla scoperta attiva, alla creazione di prodotti e alla riflessione a piccolo e grande gruppo. Tra i software per laprogrammazione, ad esempio, ha avuto un forte impatto Kodu Game Lab e tra i robot il preferito per i più piccoli rimane BeeBot.

Quali sono i vantaggi nell’usare una didattica di questo tipo?

All’interno di un impianto didattico che privilegi l’apprendimento attivo da parte del bambino le tecnologie, se intese come strumenti di creazione, possono essere una fonte preziosa perché prima di ogni altra cosa permettono ai bambini di creare prodotti originali frutto di percorsi di progettazione unici e quindi estremamente personalizzati.

Secondo lei, la classe docente italiana è​p​ronta ad affrontare questo nuovo approccio alla didattica?

Penso che al momento i docenti abbiano a disposizione una serie immensa di strumenti di formazione, informazione e approfondimento sia rispetto all’utilizzo tecnico delle tecnologie sia rispetto ai metodi e alle strategie più adeguati. Uno strumento prezioso è proprio il web perché, attraverso gruppi di discussione, siti, blog, canali e forum, ognuno può trovare infiniti spunti, risorse e occasioni di confronto. Numerosissimi sono, poi, i corsi che hanno come obiettivo quello di riflettere sull’utilizzo delle tecnologie nella didattica.
Penso che il cambiamento di approccio debba partire per lo più da una riflessione sui metodi di insegnamento che anche lla spinta delle tecnologie all’interno della didattica ha contribuito ad aprire, o meglio riaprire.

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Dopo l’intervista dell’anno scorso a un suo ex professore, in occasione del secondo anniversario dell’elezione di Papa Francesco, abbiamo intervistato Jorge Milia, giornalista, scrittore ed ex alunno di quello che sarebbe poi diventato Papa Francesco. Il signor Milia infatti ha frequentato l’Istituto dell’Immacolata Concezione di Santa Fe, dove il professor Bergoglio insegnava letteratura. Su quell’esperienza, lo scrittore, molto conosciuto in Argentina, ha scritto anche un libro edito da Mondadori, Maestro Francesco

Come era il professor Bergoglio in classe?

“El Padre Bergoglio”, Jorge Mario Bergoglio S.I. o “Carucha”, è stato un insegnante speciale in una scuola speciale. L’Immacolata è il più antico istituto dell’Argentina, una storia dentro la storia. Questo istituto non voleva essere una culla di leader. La Compagnia di Gesù aveva un’altra idea: quella di educare i giovani per diventare uomini che pensano con un senso cristiano della vita ed essere in definitiva di formare testimoni della fede.

Tutto questo ha coinciso con l’idea del professor Bergoglio. Ma lui è andato anche oltre. Aveva un nuovo modo di vedere le cose, improntato ad una grande apertura mentale che ci lasciava la libertà di indagare ciò che ci interessava. Non solo ci faceva leggere la letteratura, ma ci permetteva anche di “creare” la nostra scrittura. Ci ha anche dato la possibilità di parlare con gli autori di spicco del momento.

Dove si trovava quando Bergoglio è stato eletto Papa? Se lo aspettava?

Non, non mi aspettavo la sua elezione. Avevo parlato con lui poco prima del conclave e mi aveva detto che allo suo ritorno da Roma mi avrebbe chiamato. Invece, il 13 marzo ero a casa, in giardino con un elettricista che stava piazzando degli apparecchi. Mia moglie mi ha detto dalla finestra: “C’è il fumo bianco”. Io, che aveva per un attimo dimenticato il Conclave, risposi si spegnere il forno, pensando di aver lasciato dei semi di zucca a cuocere, ma lei mi ripose: “No, non è qui, è a Roma!”. Mi sono dunque precipitato davanti alla TV per vedere chi fosse il nuovo Papa e quando ho sentito che il cardinale Tauran pronunciava le parole “Georgium Marium …” ho cominciato a piangere. Da quel momento in poi il mio telefono ha iniziato a squillare e non ha smesso più per due giorni!

Qual è il più importante contributo che un Papa argentino può dare alla Chiesa del XXI secolo?

Penso che, anche se molte persone sono già scioccate da ciò che Francesco ha già fatto, i cambiamenti potranno essere valutati solo alla fine del suo pontificato. Il cambiamento non sta nel suo essere latino-americano, argentino o gesuita, ma nella scelta dei cardinali elettori. Questo è stato preso in considerazione da pochissime persone fino ad ora, ma se non ci fosse stato un cambiamento di prospettiva nel collegio cardinalizio, oggi non avremmo avuto Papa Francesco. L’importante è che la maggior parte dei cardinali ha ritenuto che un tale cambiamento fosse necessario. Dopo, da quel “Buonasera”, il nuovo vescovo di Roma, ha iniziato le altre modifiche, ma non dimentichiamo che il primo grande cambiamento è avvenuto la sera dell’elezione.

È vero che per tutto il mondo l’essere latino-americano, argentino e gesuita sono fattori importanti. In tutti e tre i casi si tratta di una prima volta. E si potrebbero fare molte disquisizioni su quale di questi tre aspetti sia Di maggior rilievo nella figura di Papa Francesco. Ma il vero segreto di Bergoglio sta nella sua personalità, nella sua capacità di lavoro e nella fede.

Che cosa ha significato per l’Argentina l’elezione di Papa Bergoglio?

La questione è difficile, perché può avere molte risposte. In primo luogo è necessario specificare di quale Argentina parliamo. Se parliamo di Bergoglio bisogna sapere che ci sono quelli che lo vogliono e quelli che lo odiano. Alcuni di questi ultimi ora si sono travestiti da amici, ma è solo una cosa facciata. Certamente l’elezione ha cambiato molte sotto l’aspetto politico. La più importante è stata quella di evitare il disegno di legge per modificare la Costituzione. Questo ha significato l’impossibilità della rielezione per Cristina Fernández (il Capo di Stato dell’Argentina, ndr). Così si capisce l’ira del suo governo nei primi due primi giorni. Dopo hanno recuperato il buon senso (o si sono anch’essi vestiti di ipocrisia) dimenticando le quattordici sollecitazioni da parte del Cardinale Primate per avere un’udienza, sempre negata dalla Fernàndez. Per quanto riguarda l’aspetto ecclesiale invece, gli argentini hanno la stessa adesione a Francesco di tutto il mondo. Ma nella chiesa di Argentina ancora non si vede un cambiamento eclatante. E questo è logico, sono strutture molto grandi che dovevano fare un cambiamento. Per la gente comune è sempre più facile.

Ha sentito ultimamente il Papa? Cosa vi siete detti?

No, ad eccezione di qualcuna risposta via e-mail, non ho parlato con lui. L’ultima volta è stato a settembre scorso. Ma non è stata più che una chiacchierata di amici poiché io non sono un uomo di stato che ha da discutere di questioni importanti. Sono un uomo comune che solo ha avuto la fortuna di essere amico del Papa. Quando ci siamo sentiti, lui mi chiedeva sempre delle mie figlie, e ricorda ogni cosa che gli ho raccontato in precedenza e non lascia mai di darmi consigli. Quando gli ho raccontato come si aiutano fra loro, mi ha detto che con mia moglie abbiamo fatto un buon lavoro, perché le nostre figlie hanno il senso della solidarietà. Essere solidali tra sorelle o fratelli non significa fornire denaro l’uno a l’altro, è il suo buon consiglio, ma stare insieme per combattere la solitudine.

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Abdoulaye Mbodj è un giovane avvocato, il primo africano iscritto dal 2012 all’Ordine degli Avvocati di Milano. L’Avv. Mbodj, 30enne, infatti è nato a Dakar, in Senegal, e nel 1991 si è trasferito in Italia, vicino a Lodi, raggiungendo i suoi genitori. Dopo il liceo scientifico, si è laureato con lode in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Da quasi tre anni sta dando vita a dei progetti che sostengano lo sviluppo nel suo Paese d’origine. A tal fine ha costituito una Onlus, “Associazione Amici di Babacar Mbaye e Awa Fall Onlus”, dedicata alla memoria dei propri nonni materni. Per conoscere meglio questa realtà lo abbiamo intervistato.

Lei è da molti anni in Italia, ma quali sono i legami con la sua terra natale?

I legami con il mio Paese d’origine, il Senegal, sono molto forti e saldi. Infatti, quasi ogni anno torno nel mio Paese ed ho frequenti contatti con i miei cugini che sento spesso telefonicamente e su skype. Come avvocato ho anche seguito qualche pratica legale per il Consolato senegalese in Milano. Inoltre, conosco perfettamente la lingua senegalese, il wolof. Infine, sono molto legato alla comunità senegalese di Zingonia in Provincia di Bergamo, a cui storicamente io e la mia famiglia siamo legati.

Come è nata l’onlus che ha fondato?

L’idea della Onlus è piuttosto recente, essendo stata costituita il 27 maggio 2014. Tuttavia l’idea originaria parte da molto lontano. Infatti, nel 2008 durante la mia vacanza-studio americana di due mesi a Chicago per scrivere la tesi di laurea, ebbi modo di conoscere un caro amico di Crema, Alberto Piantelli, con il quale durante una conversazione lanciammo l’idea di poter fare qualcosa di concreto per il mio Paese, al quale desideravo restituire un po’ della mia fortuna.

Quindi, nell’estate 2013, con il supporto del Rotaract Terre Cremasche di Crema, io e Alberto organizzammo due aperitivi di fundraising in cui coinvolgemmo tanti giovani, unendo il divertimento con una giusta e nobile causa: aiutare il mio Paese d’origine.

Con i fondi raccolti (3.000,00 €) nei due aperitivi a Crema, in Provincia di Cremona, abbiamo pagato i container che da Genova hanno trasportato i beni donati dall’Ospedale di Crema (dispositivi e presidi medico-sanitari) alla volta del Senegal, per ristrutturare il reparto di ginecologia dell’Ospedale Roi Bauodin di Guediawaye Samh Notaire, una circoscrizione di 40.000 abitanti della capitale del Senegal, Dakar.

Dopo questo inizio come avete proseguito?

Ci siamo concentrati su altri due settori con difficoltà croniche in Senegal: quello della Pubblica Amministrazone e quello dell’istruzione. Pertanto, abbiamo rivolto i nostri sforzi anche all’Ufficio anagrafe del Comune senegalese, fornendo stampanti, computer e scanner al fine di informatizzare e digitalizzare l’Ufficio comunale con una più sicura archiviazione elettronica della documentazione, che con l’archiviazione cartacea spesso si deteriova o addirittura veniva smarrita. Mentre per la scuola elementare abbiamo fornito beni di prima necessità per l’attività scolastica ordinaria: penne, pastelli, matite, quaderni, cancellini, gessi, registri ecc.

Quali sono i progetti per il futuro?

Per il 2015 abbiamo fatto un ambizioso “action plan”, e ci siamo prefissati degli obiettivi strutturali: ci piacerebbe portare in Italia due persone del personale infermieristico e paramedico dell’Ospedale senegalese da formare durante una settimana di training sanitario presso un Ospedale lombardo (Lodi o Crema). Inoltre, ci piacerebbe reperire tramite una locale Croce Bianca, un’ambulanza per l’ospedale senegalese, oltre a recuperare materiali e beni per la prima infanzia per rendere più moderno il reparto di ginecologia.

Quale è la filosofia che soggiace a tutto ciò?

IL motto della nostra Onlus, assai educativo, è: “non regalarmi il pesce ma insegnami a pescarlo che mangio tutta la vita”. Un motto che ribalta radicalmente la tradizionale forma di cooperazione internazionale basata sui fondi dati a pioggia.

Il nostro scopo, infatti, è quello di implementare una politica di sviluppo: alla fornitura alla comunità delle attrezzature necessarie, si affianca infatti la formazione della medesima, propedeutica, in particolare, all’acquisizione delle conoscenze tecniche necessarie per l’utilizzo delle attrezzature sanitarie e amministrative donate.

Ai membri della comunità viene quindi data la preziosa occasione di “aiutarsi”, di divenire coscienti delle proprie potenzialità e, responsabilizzandosi, di migliorare le proprie future condizioni sociali, sanitarie e educative.

E’ un progetto credibile poiché i beni vengono consegnati direttamente dai miei genitori Alioune e Anta che supervisionano affinché i beni vengano destinati ai fini specifici. Inoltre, periodicamente io mi reco direttamente sul posto per fare dei sopralluoghi di verifica e dei controlli sul campo.

Ci sono realtà italiane che sostengono la vostra onlus?

Gli enti che sostengono da quasi tre anni la Onlus e a cui va il mio più vivo e sentito ringraziamento sono: l’Ospedale Maggiore di Crema (in provincia di Cremona), la Parrocchia San Giovanni Bosco di Codogno (in provincia di Lodi) e il Rotaract Terre Cremasche di Crema.

Magari ci sono fra i nostri lettori dei tuoi connazionali o persone che sono interessate a sostenere la sua iniziativa. Come possono fare?

Sicuramente la modalità che raccomando a tutti è la consultazione del sito internet della Onlus: www.aabaonlus.org Iscrivendosi alla newsletter sarà garantito il costante aggiornamento con riferimento alle attività ed iniziative della Onlus, quali ad esempio le cene di fundraising o la presentazione dei risultati associativi. Inoltre, è possibile contattarci mediante l’indirizzo mail dell’associazione associazioneabaonlus@gmail.com

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Contengono dei veri e propri tesori, sono numerosissimi, ma spesso poco conosciuti. Stiamo parlando dei musei diocesani, una realtà che vorremmo riscoprire e valorizzare. Per questo motivo intervisteremo prossimamente i direttori dei musei o persone che vi operano.
Iniziamo con la Dott.ssa Lucia Lojacono, direttrice del Museo Diocesano di Reggio Calabria che ha gentilmente risposto alle nostre domande. La Dott.ssa Lojacono aderisce alla Compagnia di San Giovanni Damasceno, il gruppo facebook che raccoglie tutti coloro che diffondono la cultura religiosa attraverso l’arte.

Può presentarci brevemente il Museo diocesano di Reggio Calabria?

Il Museo diocesano “Mons. Aurelio Sorrentino” è adiacente alla Cattedrale dell’Assunta a Reggio Calabria (in via Tommaso Campanella, 63). E’ regolarmente aperto martedì, mercoledì, venerdì e sabato dalle 9 alle 13. Effettua aperture straordinarie per gruppi, previa prenotazione (contatti: cell. 3387554386; info@museodiocesanoreggiocalabria.it).

Il Museo ha un sito web costantemente aggiornato, visitando il quale è possibile rendersi conto di tutte le attività che proponiamoo. Inoltre, il museo è presente sui principali social network: Facebook, Twitter e Pinterest.

Inaugurato il 7 ottobre 2010, il Museo diocesano è sito al pianterreno dell’ala tardo-settecentesca del palazzo arcivescovile costruito sulle rovine di un preesistente edificio, sorto accanto alla Cattedrale alla fine del Cinquecento.

Il percorso narrativo che guida l’esposizione è organizzato “in modo da poter comunicare il sacro, il bello, l’antico, il nuovo”, attuando l’obiettivo prioritario di restituire all’opera esposta la memoria della sua funzione originaria, in modo da farne emergere i significati simbolici, la sua valenza di segno, facendo salvi, peraltro, i nessi altrimenti perduti con la comunità religiosa cui essa appartenne e con lo spazio sacro per il quale fu realizzata. Il Museo documenta, in particolare, le distinte identità, storica e religiosa, delle antiche sedi episcopali di Reggio Calabria e di Bova, fuse nel 1986.

Le opere sono accolte in spazi tematici dedicati, tra gli altri: ai Frammenti della memoria, ove sono marmi sei-ottocenteschi appartenuti all’antica Cattedrale; al Tesoro delle Cattedrali, ove si espongono pregevoli argenterie sacre databili tra Cinque e Novecento; alle insegne che contraddistinguono la dignità e il ruolo del vescovo, ove risalta il ruolo dei singoli prelati in qualità di committenti di opere d’arte dal Quattrocento ad oggi; al rapporto tra Arte e devozione, con suppellettili e vesti liturgiche appartenute alle confraternite reggine, e tra Arte e culto dei Santi, con pregevoli reliquiari e corredi di immagini sacre.

Quali sono le opere di maggior valore artistico presenti nel museo?

Tra le opere più significative esposte, possiamo menzionare la Resurrezione di Lazzaro attribuita al pittore napoletano Francesco De Mura, allievo di Francesco Solimena (terzo decennio sec. XVIII); l’Ostensorio raggiato disegnato da Francesco Jerace nel 1928, in occasione del I Congresso Eucaristico regionale svoltosi a Reggio Calabria; il settecentesco Reliquiario a braccio di San Giovanni Theriste, le cui reliquie furono donate da Apollinare Agresta, abate del monastero italo-greco di Stilo, a monsignor Marcantonio Contestabile, vescovo di Bova dal 1669 al 1699; il Bacolo pastorale di mons. Antonio de Ricci, arcivescovo di Reggio dal 1453 al 1490, opera in argento e smalti di scuola napoletana; un Crocifisso in avorio donato alla Cattedrale dall’arcivescovo Alessandro Tommasini (1818–1826); pregevoli manufatti tessili appartenuti alla Confraternita dell’Immacolata nella chiesa della SS. Annunziata e, tra essi, un parato nobile in broccato di seta, opera di manifattura lionese (1735 circa).

Quali sono a suo avviso i punti d’eccellenza del Museo?

Consapevole che l’educazione museale non sia qualcosa “in più” da inserire facoltativamente nella vita di un Museo, bensì ne debba accompagnare e caratterizzare l’esistenza, il Museo diocesano ha posto da sempre al centro del proprio operare l’azione educativa, attivando ogni iniziativa per promuoverla, sostenerla e potenziarla.

I Servizi educativi museali, al riguardo, rivolgono alle Scuole dell’Infanzia, Primaria e Secondaria la proposta “Tutto un altro museo”, attività didattiche a tema e visite guidate; alle famiglie con bambini dai 4 ai 10 anni, nei mesi estivi, sono offerti i laboratori creativi “La Fabbrica dell’arte”, ideati con il fine di favorire la conoscenza “ludica” dell’arte e di proporre un’idea di Museo non come luogo polveroso e austero, bensì come spazio che sappia suscitare l’interesse per il Bello in modo attivo, stimolante e coinvolgente.

Ai Servizi educativi si devono anche proposte di arte e catechesi mirate, percorsi tematici legati ai diversi momenti dell’Anno Liturgico rivolti a bambini e ragazzi che si preparano alla Prima Comunione e alla Cresima e/o di età compresa tra i 7 e i 14 anni.

In tal modo, il Museo, per vocazione teso al recupero, alla conservazione e alla tutela del bene culturale, diviene anche e soprattutto spazio “speciale” di apprendimento e di educazione alla cultura, il “luogo nel quale è possibile formare cittadini consapevoli e attivi nel condividere e promuovere la trasmissione della memoria storica e l’espressione culturale”.

Qual è il rapporto del museo diocesano col territorio?

Il Museo diocesano di Reggio Calabria pone in essere ogni azione utile a promuovere conoscenza e valorizzazione delle proprie collezioni: in particolare, entro il 2015 il Progetto MyCultuREC, attuato in convenzione con l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, attraverso la realizzazione di un’App, utilizzerà la realtà aumentata per offrire ai visitatori informazioni e contenuti multimediali sulle opere esposte, registrando la visita e interagendo anche a distanza, informandoli di novità ed eventi che si promuovono nello spazio museale.

Nelle prossime settimane, attraverso il lancio di una campagna di crownfounding, il Museo diocesano darà avvio al Progetto Museum Children Ebook©, finalizzato alla realizzazione di un ebook sulle collezioni museali, accattivante per grafica e contenuti, e di un’App, entrambi destinati ai bambini dai 3 ai 10 anni.

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Nel nostro Paese è sempre più crescente l’interesse verso le icone. Ne è prova il fatto che ogni anno se ne realizzano fra i 10.000 e i 15.000 esemplari: un numero davvero impressionante! Per conoscere più da vicino questo affascinante mondo, abbiamo intervistato Ivan Polverari, uno dei più noti iconografi italiani e membro della Compagnia di San Giovanni Damasceno, il gruppo facebook che raccoglie quanti sono interessati a diffondere la religione attraverso l’arte.

Come è nata questa passione?

E’ sempre molto difficile rispondere a questa domanda, sono convinto che siano le icone ad aver incontrato me, attraverso le situazioni e le molte persone che Dio ha messo sul mio cammino.

Il mio primo incontro è stato grazie ai racconti della prigionia, nell’isola di Rodi, di mio nonno materno. Mi narrava di come ogni giorno andasse in una piccolissima chiesa ortodossa, a portare, davanti ad una icona della Vergine, dei fiori dentro i bossoli delle munizioni, chiedendoLe il ritorno a casa sano e salvo, e così è stato.

Poi la vera e propria svolta è avvenuta all’età di 12 anni. Ricordo che stavo guardando un programma televisivo su di un monastero greco, la telecamera si posò su un’icona della Vergine con il Bambino: quei pochi fotogrammi, in cui i Suoi occhi si posarono sui miei, hanno segnato tutta la mia vita.

In ultimo, vorrei ricordare i miei maestri, a cominciare dal mio professore di educazione artistica della scuola media, il Prof. Biagiotti di Urbino, che per primo intuì una mia propensione per l’arte medioevale.

Inoltre, il primo corso a Ravina di Trento, nel 1992, con il maestro Fabio Nones, il contatto epistolare tenuto con suor Junia, iconografa del Monastero russo Uspenskij di Roma e, infine, i corsi con il Maestro P. Andrey Davidov.

La sua attività iconografica si ispira soprattutto alle icone romane. Perché proprio questa scelta ? Potrebbe ricordare ai nostri lettori quali sono e dove si trovano?

Nel mio percorso di studi, mi sono accorto di come l’arte bizantina, a cui era ed è rivolto tutto il mio interesse, non provenisse dal nulla ma avesse come retroterra, formale e culturale, l’arte classica.

Fu proprio il maestro Davidov, che mi fece scoprire quanto fosse grande e splendido il deposito iconografico italiano: a cominciare dall’arte paleocristiana, proseguendo con gli splendidi mosaici Ravennati e, continuando, con tutta la stagione pittorica medioevale.

Attraverso questo itinerario mi sono sempre più convinto di quanto fosse importante il patrimonio artistico della Chiesa Indivisa, a cui sempre più spesso guardano anche le Chiese Ortodosse.

A quell’infinto tesoro dovevo attingere, per poter proporre icone, che non fossero soltanto il prodotto di un “pio esercizio pittorico” o di un esotismo di moda, ma immagini efficaci e riconoscibili adatte per la preghiera liturgica del popolo di Dio, che è a Roma, inserite in un contesto che non è confessionalmente Ortodosso.

Così sono partito dall’arte russa, che mi ha iniziato alla pittura delle icone, e, a ritroso, sono arrivato alla grande stagione pittorica di Roma. Ora, nel mio modo di dipingere, si possono notare i riferimenti al mondo classico, tardo ellenistico e paleocristiano. La conoscenza delle Icone Romane più antiche, dei mosaici e degli affreschi sono per me una continua fonte di ispirazione.

Vorrei ricordare, brevemente, le sei Icone più antiche dell’Urbe e alcuni affreschi situati in alcune Basiliche e Catacombe: l’icona della Madre di Dio “Hodigitria”, (ultimo quarto del VI sec.), conservata presso la Basilica di Santa Maria Nova o Santa Francesca Romana; l’immagine della “Madre di Dio Hodigitria” (609 c.a.), conservata nella Chiesa di Santa Maria ad Martyres (Pantheon); la Madonna di San Sisto o Santa Maria in Tempuli, (sec. VII-VIII), venerata presso la Chiesa del Monastero di Santa Maria del Rosario a Monte Mario; l’icona della Madonna della Clemenza, (fine VI, inizi VIII sec.), venerata nella Basilica di Santa Maria in Trastevere; l’Icona della Madre di Dio, conosciuta come “Salus Populi Romani” (circa del VII sec.) con ridipinture del XII e XIII sec., venerata presso la Basilica di Santa Maria Maggiore.
Infine l’Icona di Cristo detto “Acheropita Lateranense” (circa del sec. VI-VII), venerata nel Sancta Sanctorum in Laterano.

Per quanto riguarda i Mosaici vorrei ricordare quelli della Basilica dei Santi Cosma e Damiano, (sec. VI), di Santa Prassede, (sec. VIII), di Santa Maria in Domnica, (sec. VIII), e di Santa Pudenziana, (sec. VI).

Meravigliosi sono gli affreschi, riportati all’originale splendore da un recente restauro, della Basilica di Santa Maria Antiqua al Foro Romano,( sec. V-VII), e quelli che si trovano nelle Catacombe di Comodilla,(527-528).
L’elenco è indubbiamente incompleto, anche perché il patrimonio iconografico romano, paleo cristiano e altomedievale, è vastissimo.

È coinvolto in attività volte a far conoscere la spiritualità delle icone?

Si, sono co-fondatore, insieme agli iconografi Alfonso Caccese, Antonio De Benedictis, Claudia Rapetti , all’Architetto Diego Sabatino e al Rev. Don Domenico Repice, dell’associazione “In Novitate Radix”. Ci occupiamo dello studio, della rivalutazione e della attualizzazione del patrimonio iconografico cristiano, romano e altomedievale, attraverso incontri, scambi e cooperazioni tra iconografi e docenti delle diverse Università Pontificie presenti a Roma.

Pur partendo da esperienze differenti, siamo giunti alla conclusione della necessità di dare un fondamento, non soltanto tecnico, ma anche culturale, al nostro operato di iconografi, per poter proporre un’arte sempre più autenticamente Cristiana legata alla Scrittura, alla Liturgia e ai Padri.

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Dopo averla intervistata la settimana scorsa, torniamo a parlare con la Dott.ssa Martina Pastorelli, fondatrice di Catholic Voice Italia e curatrice del volume “Come difendere la fede senza alzare la voce”. Questa volta tratteremo con lei alcuni temi specifici del libro, in particolare quello del ruolo pubblico della Chiesa.

“Ah va bene, tu la pensi così perché sei cattolico”. Quante volte ce lo siamo sentiti dire, come se fossimo cittadini di serie B o, mi passi l’espressione, dei “minus habens”! Quali sono secondo lei le radici “culturali” di questo snobbismo verso le posizioni dei cattolici?

Le ragioni di questo atteggiamento sono molteplici: forse la più recente è legata alla tendenza di confinare la religione a un qualcosa di meramente privato, soggettivo, il che porta a non riconoscere, come bene per me, il sentimento dell’altro.

Poi gioca certamente il fatto che l’unica forma di sapienza accettata sembra essere quella derivante dal pensiero scientifico, per cui tutto viene ridotto a fattore matematico e nulla si può dire su valori come l’amore, la giustizia, la rettitudine, ecc.

Causa non ultima è la grande misconoscenza delle verità della fede cattolica, che contribuisce notevolmente all’indifferenza e al sospetto verso la Chiesa e i suoi insegnamenti.

Per questo un lavoro di reframing – come quello proposto da Catholic Voices – per vincere i pregiudizi comunicando la bellezza autentica del messaggio cristiano, è indispensabile per riaprire il canale di ascolto da parte dell’altro.

Il punto è che la democrazia moderna deve essere aperta all’universalità di quei contributi che la possano aiutare a creare una società dove la ricchezza del singolo possa essere espressa per il bene di tutta la comunità. Ecco perchè il cattolico può reclamare molto serenamente un ruolo di primo piano nel dibattito politico pubblico.

A pag. 23 leggiamo: “la gente è contraria a una interferenza della Chiesa su ciò che preferirebbe venisse tralasciato, e a favore di una interferenza della Chiesa su ciò che invece vorrebbe venisse affrontato”. Secondo lei cosa si può fare per evitare queste critiche di comodo, e a corrente alternata, in modo tale che la voce dei cattolici ritrovi piena cittadinanza nel dibattito pubblico?

Invitiamo a riflettere su come la Chiesa sia regolarmente accusata di essere ora troppo di sinistra, addirittura progressista (quando difende poveri e immigrati, ad esempio) ora troppo di destra, reazionaria e conservatrice (quando promuove la famiglia naturale o si oppone all’aborto).

Richiamare l’attenzione su questa contraddizione evidente aiuta a capire come in realtà stiamo parlando delle nostre aspettative, anzichè di una effettiva interferenza della Chiesa.

Quanto a far sentire la voce dei cattolici, si tratta di fare appello – molto semplicemente – alla libertà di espressione, ricordando che la Chiesa vuole tenere ben distinte – seppure in dialogo – la sfera religiosa da quella politica.

Qui non si tratta di voler imporre una visione religiosa nella vita pubblica, ma di bilanciare le libertà in una moderna società pluralista, garantendo ai cattolici il diritto di manifestare le proprie convinzioni ed il proprio credo.

Portiamo le persone a chiedersi: una società che vi si appella così spesso, non vorrà mica, in nome della tolleranza, abolire la tolleranza stessa?

A mio avviso un altro spunto molto interessante si trova a pagina 25 dove si può leggere: “La non negoziabilità di certi principi non deriva perciò dalla incapacità dei cattolici al dialogo democratico, ma dal fatto che, negoziandoli, il bene comune si trasformerebbe nel minor male comune”. Può commentare questa affermazione?

Ciò che va fatto notare è che negoziare certi principi equivale di fatto a negoziare la persona, che viene “consegnata” nelle mani di altri, che ne disporranno.

Quei principi chiamati non negoziabili sono le garanzie che non permettono alla società di disumanizzarsi: difendendoli non si nega il dialogo democratico ma lo si eleva, mostrando che essi sono l’unica vera difesa dellla dignità della persona da ogni forma di potere arrogante.

La loro negazione impedisce il progresso morale di una nazione, che si vedrà continuamente costretta a legiferare per limitare i danni e i mali derivanti dall’aver negoziato su quei principi. E ciò che sta già avvenendo, tra l’altro.

A pag. 31 viene citato il bel libro di G. Rusconi “L’impegno” nel quale l’autore dà un’analisi dettagliata di come la Chiesa accompagni la società nella vita di ogni giorno. Secondo lei, quanto è importante far entrare nel dibattito pubblico il concreto contributo che la Chiesa offre?

La Chiesa cattolica è la seconda struttura internazionale di pianificazione e sviluppo dopo le Nazioni Unite, e la seconda agenzia umanitaria dopo la Croce Rossa: è bene ricordarlo a chi chiede di relegare la religione ad un fatto privato o a chi parla della Chiesa come di un corpo estraneo alla dinamica della società, distante dai problemi reali e concreti.

Al contrario, anche in Italia, il contributo pubblico offerto della Chiesa è diventato imprescindibile, specialmente in momenti di crisi economica come quello che stiamo vivendo, basti pensare al punto di riferimento rappresentato dalle mense ecclesiali (persino nelle città più “ricche” della penisola) o all’impegno nella lotta alle nuove povertà con iniziative di vario tipo (empori solidali, erogazione di micro-crediti, fondi di solidarietà). Questa è una presenza concreta e preziosissima, che è sotto gli occhi di tutti.

Anche qui, secondo me, è importante fare appello al buon senso e alla giusta misura: conviene davvero impuntarsi per un’esenzione – penso all’IMU – di cui peraltro beneficia tutto il mondo no profit, o vogliamo guardare a tutti i campi in cui la Chiesa supplisce concretamente alle carenze dello Stato sociale?

Far notare questo non è irrilevante, perchè dal riconoscimento del suo contributo pratico e morale alla società, scaturisce anche il diritto della Chiesa di far sentire la sua voce nel Paese in occasione delle grandi battaglie politiche per il bene comune.

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Il viaggio apostolico di Papa Benedetto XVI nel Regno Unito che si svolse nel settembre 2010 fu preceduto da non poche polemiche, sia nelle piazze che sui media. Per quanto possa essere paradossale, in una cultura che si vanta delle proprie aperture, sembrava non esserci spazio per il capo della Chiesa Cattolica.

In questo contesto, Austen Ivereigh e Jack Valero, due cattolici che operano nel mondo della comunicazione, non si persero d’animo, raggrupparono una trentina di “ordinary catholics”, che in 6 mesi di Media Training trasformarono in capaci comunicatori della propria fede sui temi più scottanti dell’attualità. Fu un successo: le “voci cattoliche”, formate per trasmettere nel modo più efficace il messaggio cristiano attraverso i media, diedero oltre 100 interviste radio/tv, contribuendo a migliorare in modo significativo l’immagine della Chiesa nel Regno Unito.

Nasceva così Catholic Voices che nel corso di questi quattro anni si è estesa in ben 15 paesi. Fra questi, da poco, c’è anche l’Italia. Per conoscere meglio questa realtà abbiamo intervistato Martina Pastorelli, fondatrice di Catholic Voices Italia e curatrice del libro che ne spiega il metodo, intitolato “Come difendere la fede senza alzare la voce” (ed. Lindau).

Perché Catholic Voices Italia?

Tutto nasce da un’esperienza molto personale. Sposata con un non credente e circondata da amici di impronta liberal, mi sono trovata sempre più spesso chiamata in causa per la mia fede, quasi a dover “giustificare” certe posizioni della Chiesa. All’inizio erano confronti animati, da cui uscivo scoraggiata e sentendomi non capita, poi un bel giorno la reazione cambia e mi sento dire: “E’ così che quelli come voi riusciranno a portare dalla vostra parte, su certi temi, quelli come noi”. Cos’era successo? Che nel frattempo mi ero imbattuta in Catholic Voices e ne avevo applicato il metodo, che spiega come il linguaggio e il modo con cui ci si pone facciano la differenza. Si tratti della pausa caffè al bar coi colleghi piuttosto che di un dibattito pubblico, il cattolico del gruppo finisce spesso per dover rendere conto della propria fede. Ecco, in queste circostanze, sapere argomentare il maniera umana, chiara e pacata è essenziale. Papa Francesco, tra l’altro, ce lo dimostra ogni giorno.

Qual è il punto di forza del metodo di Catholic Voices?

Il metodo, chiamato reframing, insegna a individuare in ogni critica mossa alla Chiesa, anche la più ostile, un’intenzione positiva, un valore che è quasi sempre (anche se inconsciamente) cristiano e parte da questo terreno comune per riformulare l’argomento e far riflettere sulla posta in gioco. E’ un metodo che permette di uscire dalla logica del conflitto, a mettere da parte aggressività e vittimismi, a fare appello alla ragione, al buon senso. A entrare in un rapporto prima di tutto umano con l’altro. Crea empatia, che è il presupposto di ogni dialogo.

Possiamo dire che il progetto di Catholic Voices porta avanti una nuova forma apologetica?

Sì, una nuova apologetica, che sa parlare alla società di oggi, anche attraverso i suoi mezzi di comunicazione, così centrali. Si tratta di equipaggiare i cattolici, aiutarli a spiegare nel modo più efficace i valori in cui crediamo e l’impegno autentico della Chiesa per il bene comune. L’obiettivo è riuscire a dialogare con tutti, credenti e non, sui temi che toccano l’intera società, proprio perché è in gioco il bene della società stessa. In questo raccogliamo l’invito di Papa Francesco che ha chiamato i cristiani “a dialogare con quelli che non la pensano come noi, con quelli che hanno un’altra fede o che non hanno fede”. Il Papa ci ha ricordato che possiamo andare incontro a tutti senza paura e senza rinunciare alla nostra appartenenza.

Quali iniziative concrete sta portando avanti Catholic Voice in Italia?

Catholic Voices si articola in corsi di media training per quanti intervengono nel dibattito pubblico (il primo partirà a Roma tra pochi giorni) ma si rivolge anche a un pubblico più vasto con il libro “Come difendere la fede senza alzare la voce”, che applica il metodo del reframing ai temi più controversi e suggerisce i punti chiave da mettere in evidenza per spiegare la posizione della Chiesa, riuscire a vincere i pregiudizi e riavviare il dialogo con umanità e buon senso.

Qual è il rapporto di Catholic Voices con la gerarchia cattolica?

Catholic Voices non parla ufficialmente a nome della Chiesa ma ne ha la benedizione e ne rispetta in toto la leadership e la dottrina. In tutto il mondo ha ricevuto ampi consensi tra i vescovi e i massimi esponenti della Chiesa: penso ad esempio al Cardinale e Arcivescovo di New York, Dolan, grande fan del progetto o all’Arcivescovo di Westminster Nichols, che ha definito “cruciale” il tentativo di CV di mettere insieme fede e ragione nel dibattito pubblico.

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