Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Nicola Rosetti

Abbiamo il piacere di intervistare Rodolfo Papa, docente di Estetica all’Università Urbaniana. Vogliamo chiedergli qualche riflessione sul rapporto fra la religione cattolica e l’arte.  Ci può dire qualche guida linea che lei ritiene essenziale in questo rapporto?

Facciamo anche pubblicità al testo “Discorsi sull’arte sacra”, appena pubblicato  da Cantagalli, nel quale affronto otto discorsi che servono per  guardare in maniera compiuta e completa al rapporto che c’è tra l’arte , la bellezza e la fede cattolica. Questo rapporto è estremamente importante, perché è uno degli elementi costitutivi del pensiero cristiano che permette di vedere il mondo di saperlo rappresentare. In più poi c’è un dovere interno del cristiano che è quello di rappresentare Cristo. Ciò è avvenuto fin dall’inizio e noi dobbiamo cercare sempre di rintracciare le radici di tutta la questione artistica perché in essa troveremo sempre ciò che è riconducibile o a dei temi che sono stati affrontati, guardati e studiati in maniera positiva dal pensiero cristiano. Questa ricerca per esempio ci può aiutare a comprendere il pensiero di sant’Agostino che nel “De vera religione” ci offre  una rappresentazione della bellezza come sistema proporzionale oppure quello di San Tommaso d’Aquino che parla della claritas, dello splendore luminoso. Il tema della bellezza poi affascina il grande pubblico.  Sono stato intervistato qualche giorno fa, o meglio ho realizzato una trasmissione di arte per una televisione giapponese, e mi è stato chiesto di parlare di Caraggio. Ma per parlare di Caravaggio a un pubblico giapponese dovevo parlare necessariamente del cristianesimo. E ho parlato per un’ora e mezzo di fede cristiana. Quindi in Giappone, per vedere la trasmissione su Caravaggio, ascolteranno un’ora e mezza di catechismo!

Qual è lo stato attuale dell’arte cristiana? Secondo lei nella produzione artistica di soggetti sacri c’è una inarrestabile decadenza negli ultimi anni o c’è qualche segnale di ripresa?

Non si tratta di decadenza, ma di un momento di riflessione che ha portato all’interno del pensiero cristiano una serie di  elementi che in maniera confusa hanno portato determinate cose: alcune cose buone altre meno. Pian piano, grazie agli interventi di Giovanni Paolo II e ultimamente di Benedetto XVI, ci sono stati dati degli imput interessantissimi per rivedere tutto il magistero, rileggerlo da capo  e comprenderlo meglio.  Ci sono oggi degli elementi abbastanza chiari per poter  definitivamente comprendere qual è la linea  da adottare nel campo artistico. L’ermeneutica della continuità all’interno del rinnovamento, come direbbe Benedetto, ci permette allo stesso tempo di legarci alla tradizione e di guardare avanti.

La via della bellezza è la nuova via dell’evangelizzazione come ha detto anche Benedetto XVI. Vuole spendere qualche parola su questo?

Dal mio punto di vista è una delle vie maestre. È chiaro che ci sono tante altre strade, ma questa è forse la via  più importante. Del resto Giovanni Paolo II ha detto che la bellezza salverà il mondo intendendo dire che Cristo nella sua bellezza, nella sua raffigurazione nella sua rappresentazione non può che portare il bene. Dall’altra Parte Benedetto XVI ha ricordato che la via dell’arte è la strada giusta per annunciare il kerigma , il primo annuncio, ma anche per costruire la catechesi, per fare in modo che i giovani possano essere ben educati alla fede, come si faceva una volta raccontando e spiegando le sacre scritture che sono rappresentate artisticamente nelle chiese come faceva San Giovanni Damasceno. Questo ha una presa sulle persone perché, attraverso le immagini e la loro bellezza,  i concetti si fissano più facilmente anche perché il cristianesimo è estremamente complesso e articolato e quindi le immagini danno anche la possibilità di comprendere meglio concetti estremamente complessi.

Lei ha avuto la fortuna di partecipare al Sinodo dei Vescovi. Ci può dire quale è stato il suo compito?

Il mio compito di esperto, che arriva con il suo bagaglio di storico dell’arte e teorico dell’arte sacra, ha riguardato questi argomenti. Ho potuto notare un grandissimo interesse sulla questione artistica e in generale sul rilancio dell’arte come strumento di evangelizzazione. La piccola nota mia personale riguarda la grandissima emozione di poter far parte di questo grandissimo evento che la chiesa vive ormai da decenni e come un momento di riflessione collettiva per offrire al Santo Padre degli spunti sui quali poi lui costruirà la sua molto più profonda riflessione nell’esortazione apostolica.

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Quando Sisto IV fece costruire e decorare la Cappella Sistina, sulla volta era stato dipinto, usando i colori della famiglia Della Rovere, un cielo blu con delle stelle gialle. In seguito fu il Papa Giulio II, sempre della famiglia Della Rovere, a volere qualcosa di più maestoso e solenne per quella cappella dove si dovevano svolgere le varie liturgie pontificie.

Sulle pareti della cappella era già stato realizzato, ad opera di una squadra di pittori toscani guidati dal Perugino, un ciclo pittorico che narrava la vita di Mosè (la storia della salvezza sotto la Legge) e quella di Cristo (la storia della salvezza sotto la Grazia). Giulio II decise di fare affrescare sulla volta la storia della salvezza prima della Legge e affidò l’esecuzione di questa impresa al genio di Michelangelo.

Il pittore iniziò i lavori nel 1508 e li portò a termine nel 1512, esattamente 500 anni fa. Michelangelo ha raccontato con 9 immagini le più importanti storie della Genesi organizzandole in gruppi di tre: nel primo gruppo il pittore ha rappresentato la Creazione dell’Universo, nel secondo gruppo sono raccontate le vicende della prima coppia umana, mentre dell’ultimo gruppo fanno parte le scene che riguardano la vita di Noè. Analizziamo ora brevemente ogni singola immagine.

Nella prima vediamo il Creatore, vestito di rosa, mentre, con una virtuosa torsione, separa la luce dalle tenebre. In questo primo dipinto Michelangelo ha voluto esaltare il monoteismo ed il numero uno: a differenza delle immagini successive, Dio è rappresentato in assoluta solitudine, sta operando la creazione nel primo giorno e pare che Michelangelo abbia realizzato questo dipinto in un solo giorno.

Nel secondo dipinto Dio è rappresentato due volte: a destra, con gesto imperioso, sta creando il sole e la luna, mentre a sinistra, dandoci le spalle, Dio sta creando la natura. Non si può fare a meno di notare questa posizione particolare di Dio che mostra le spalle al visitatore e che trova spiegazione nelle parole della Scrittura. Nella bibbia infatti, quando Dio vuole mostrare la sua Gloria, mostra le sue spalle. Dunque Michelangelo, attraverso questa originale rappresentazione, ci ha voluto mostrare come la natura sia espressione della Gloria di Dio

Nella terza immagine, che conclude il primo gruppo, Dio, sempre con gesto severo e autoritario, separa le acque superiori da quelle inferiori

Veniamo ora a quella che sicuramente è l’immagine più nota della Cappella Sistina: la creazione dell’Uomo. Dio è rappresentato avvolto in un maestoso mantello rosa che ha la forma di una sezione di cervello. Da grande studioso del corpo umano, Michelangelo ha voluto rappresentare, con questo espediente del mantello, l’intelligenza di Dio.

Il Creatore tiene sotto il braccio la Donna cha ha già in mente di creare per l’Uomo. Quando Dio ha ordinato alle cose di venire al mondo, le sue mani erano rigide e tese, ora che sta creando un essere a sua immagine e somiglianza, la sua mano ha un profilo dolce e morbido. La mano dell’Uomo è tesa, quasi in ricerca, verso il Mistero.

La scena della creazione della Donna è al centro dell’intera composizione e questo perché  l’Uomo è la prefigurazione del Cristo, mentre la Donna è la prefigurazione della Chiesa. Dalla costola dell’Uomo adagiato su un fianco, esce la Donna tutta orientata verso Il suo Creatore.

Queste prime cinque immagini che abbiamo analizzato si trovano nella parte della Cappella Sistina che corrisponde al Santo dei Santi, lo spazio sacro del Tempio di Gesusalemme dove si riteneva che Dio avesse la sua dimora. L’immagine di Dio scompare nelle scene successive che sono dipinte nella parte della Cappella che corrisponde al Santo. E la figura di Dio si eclissa, non a caso, con la scena del peccato originale.

In questo dipinto, Michelangelo si è preso parecchie libertà rispetto al testo biblico. Nella Sacra Scrittura infatti, Eva prende il frutto dell’albero proibito e lo passa ad Adamo, qui invece la donna afferra il frutto direttamente dalle mani del serpente e l’uomo lo coglie dall’albero.

Michelangelo ha voluto probabilmente attribuire all’Uomo e alla Donna lo stesso concorso di colpa. Tradizionalmente si dice che questo albero sia un melo, qui Michelangelo ha invece rappresentato un fico. Sulla destra un angelo, vestito di rosso, scaccia Adamo ed Eva dal paradiso: i progenitori, visibilmente abbruttiti dal peccato, sono nudi, secondo la narrazione biblica invece essi ricevettero da Dio delle tuniche di peli di cammello.

Passiamo ora al terzo ed ultimo gruppo. Nella prima immagine Noè, sua moglie, i suoi figli e le sue nuore stanno offrendo un olocausto per ringraziare Dio per la fine del Diluvio Universale. Noè rivolge lo sguardo verso il cielo dove dovrebbe apparire l’arcobaleno.

Nella seconda immagine vediamo orde di persone che tentano di salvarsi dal diluvio. L’arca è rappresentata in modo molto conforme al testo biblico: non ha finestre, ad eccezione di quella dalla quale si affaccia Noè.

Nell’ultima scena, sulla sinistra, vediamo Noè, vestito di rosso, mentre sta piantando la vite dalla quale ricaverà il vino col quale involontariamente si ubriacherà. Domina il dipinto la scena di Sem e Iafet che coprono loro padre mentre Cam lo deride.

Tutta l’immagine è una prefigurazione della passione: come infatti Noè ha bevuto il vino e, ubriacato, si è addormentato, così Gesù, dopo aver bevuto il calice dell’Ultima Cena si è addormentato nel sonno della morte. Se infatti dalla volta portiamo il nostro sguardo sulla parete destra possiamo vedere rappresentata la scena dell’Ultima Cena.

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A partire da martedì 16 ottobre, ogni martedì pubblicheremo le catechesi della bellezza dedicate ad opere d’arte ispirate dalla fede, partiamo con la Cappella Sistina.

La Cappella Sistina, così chiamata perché voluta dal Papa Sisto IV, è stata progettata e costruita dell’architetto Baccio Pontelli per ospitare le cerimonie del Pontefice e per consentire ai cardinali di eleggere il Papa.

Per tali motivi, questo ambiente è particolarmente ricco di dipinti e di simbolismi il cui significato profondamente teologico è spesso sconosciuto al visitatore moderno. Cercheremo di spiegare in questo articolo l’idea di fondo che sta dietro a questo gioiello dell’arte.

Sisto IV ha voluto ricreare, vicino alla tomba dell’apostolo Pietro, un luogo sacro che avesse le stesse dimensioni del Tempio di Gerusalemme descritto nella Bibbia, a sua volta ispirato al Tabernacolo, la tenda che accompagnava gli ebrei durante il loro quarantennale  pellegrinaggio nel deserto.

La Cappella Sistina infatti al suo interno è divisa da una cancellata in due parti che corrispondono alle due stanze del Tempio di Gerusalemme: il Santo e il Santo dei Santi, l’area più sacra nella quale poteva entrare solo il Sommo Sacerdote.

Inizialmente la cancellata era posta laddove nel Tempio di Gerusalemme avremmo trovato il Velo. Sopra di essa si trovano sette candelabri (oggi sono otto) a ricordo della menorah (il candelabro ebraico a sette bracci) che illuminava il Santo. Mentre nel Santo dei Santi si trovava l’Arca dell’Alleanza, simbolo della vicinanza di Dio al suo popolo, nella Cappella Sistina osserviamo l’altare, il luogo dove il Figlio di Dio si rende presente nell’Eucaristia.

Se ci troviamo nella parte della Cappella corrispondente al Santo dei Santi e fissiamo lo sguardo sulla volta, osserviamo che Michelangelo ha rappresentato Dio a sottolineare la sua presenza proprio in questa parte del Tempio. Il Creatore scompare invece nella parte corrispondente al Santo a partire dalla illustre scena del peccato originale.

Infine, se osserviamo nella parte bassa della Cappella Sistina, notiamo delle finte tende che ci ricordano il tempo in cui l’Arca dell’Alleanza era ospitata nel Tabernacolo. I dipinti che abbelliscono la Cappella Sistina rappresentano tutta la storia dell’uomo, dalla Creazione al Giudizio Universale e il visitatore che vi si trova dentro si sente come un pezzo di questo immenso progetto di salvezza.

La storia della salvezza è così scandita: 1) sulla volta troviamo nove scene che riguardano le origini della storia dell’uomo; 2) sulla parete sinistra osserviamo le scene della vita di Mosè che terminano nella controfacciata con la morte dell’illustre personaggio veterotestamentario; 3) sulla parete destra possiamo vedere delle scene della vita di Cristo che culminano nella controfacciata con la Resurrezione; 4) il visitatore che si trova al centro della Cappella si sente come un pezzo di questa grande storia; 5) sulla parete di fondo fa sfoggio di sé il Giudizio Universale.

Inizialmente, sotto il pontificato di Sisto IV, su questa parete erano state dipinte la nascita di Mosè e quella di Cristo. Sulla volta invece era dipinto, impiegando i colori della famiglia Della Rovere, un cielo blu con delle stelle

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L’11 ottobre, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, la Chiesa darà inizio all’Anno della Fede, un’occasione per riscoprire i fondamenti del nostro credo, in particolare il Catechismo della Chiesa Cattolica e i documenti del Concilio Vaticano II.

Il cattolico non vive la sua fede avulso da coordinate spazio-temporali, ovvero, non è fuori dal mondo e dalla storia, e non può essere oggi discepolo di Gesù a prescindere dagli insegnamenti che la Chiesa del suo tempo gli offre.

Le infinite diatribe che si sono scatenate attorno al Concilio Vaticano II e soprattutto attorno alla sua interpretazione hanno dato più volte occasione all’attuale Pontefice di ribadire che solo l’ermeneutica della continuità legge in maniera completa e compiuta questo evento.

Infatti, a quanti hanno visto il concilio come grave frattura con la Tradizione (ala conservatrice) e a quanti hanno interpretato il concilio come felice rifondazione di una religione ormai stanca e obsoleta (ala progressista), il Papa ha indicato quale sia invece la via maestra: ammirare il concilio nella sua continuità con il precedente insegnamento della Chiesa.

Lo sguardo di Benedetto XVI sul Vaticano II è lo stesso di Giovanni XXIII, il papa che ha fortemente voluto questo evento. Il “papa buono” infatti voleva aggiornare la Chiesa, cioè trasmettere il messaggio di sempre con parole più comprensibili all’uomo.

È per conoscere meglio questo evento storico religioso, il più importante del XX secolo, che proponiamo ai nostri lettori la lettura del libro “Il Concilio Vaticano II” di Philippe Chenaux, docente di storia della Chiesa alla Pontificia Università Lateranense e membro del Pontificio Comitato di Scienze Storiche.

I primi capitoli (1-3) sono dedicati alla situazione della Chiesa negli anni che precedettero l’apertura dell’assise ecumenica. L’autore si sofferma in particolare sull’eredità lasciata da Papa Pio XII e sulla vivace realtà dei movimenti (liturgico, biblico, patristico, mariano ed ecumenico) che chiedevano delle riforme nei vari campi della della vita della Chiesa.

Nei capitoli successivi (4-6) l’autore ricostruisce le tappe significative che portarono alla preparazione e allo svolgimento del concilio.

Lo storico della Chiesa si sofferma poi (7-10) su alcune questioni specifiche affrontate durante il dibattito conciliare prendendo in considerazione la riflessione sulla vita interna, (il rapporto fra Tradizione e Sacra Scrittura, il tema della collegialità), ed esterna della Chiesa (il rapporto con i non cattolici e con i non cristiani).

Gli ultimi capitoli (11-12) infine trattano del post-concilio e delle sue interpretazioni dando particolare rilievo ai momenti di crisi.

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ITALIA – Oggi 7 ottobre la Chiesa Onora la Beata Vergine del Rosario in ricordo della storica battaglia di Lepanto combattuta nel 1571. San Pio V attribuì l’esito positivo dell’episodio bellico all’intercessione di Maria alla quale fu attribuito da allora il titolo di “Auxilium Christianorum” col quale ancora oggi la veneriamo. Per conoscere l’origine storica di questa memoria liturgica, abbiamo intervistato Alberto Leoni autore di diversi libri di carattere storico come “L’Europa prima delle crociate” e “La croce e la mezzaluna”, editi da ARES

Ci può ricordare quali flotte si affrontarono?

Piccola premessa: attribuire la vittoria di Lepanto all’intercessione di Maria Santissima è oltremodo doveroso ma, se guardiamo il contesto militare e politico e lo svolgimento della battaglia non ci sono elementi miracolistici. Fu una grande battaglia navale, l’ultima combattuta su navi a remi. Da una parte la flotta cristiana, composta da navi veneziane, spagnole e italiane, con molta fanteria dell’impero spagnolo a bordo ( e anche questi fanti erano in buona parte italiani). Una flotta che, fino ad allora aveva conosciuto sconfitte brucianti come quella di Prevesa e che aveva il suo punto debole proprio nella fragile alleanza tra Venezia, l’impero e il papato. Tre soggetti che si erano sempre guardati in cagnesco, soprattutto veneziani e spagnoli. Prima della battaglia, baruffe e risse fecero un po’ di morti e la Lega fu più volte sul punto di spezzarsi. Se ciò non accadde lo si dovette alla formidabile mediazione di don Giovanni d’Austria, figlio illegittimo di Carlo V e dell’ammiraglio Marcantonio Colonna, comandante del contingente papale. Ciò che salvò l’alleanza fu la preghiera costante del Rosario che unì popoli diversi e diede ai combattenti il coraggio di affrontare i rischi enormi della battaglia. In “La croce e la mezzaluna” (Ares 2009)   ho raccontato cosa fosse un combattimento navale nel 1571. dall’altra parte la flotta ottomana, splendidamente addestrata e unita sotto un impero formidabile. La flotta ottomana era forte di 208 galee quella cristiana di 180-190. Leggera superiorità numerica ottomana più che compensata dalla superiorità cristiana nelle armi da fuoco. In altre parole, gli ottomani erano l’eccellenza del medioevo, i cristiani erano già proiettati nel futuro. La lotta fu incerta e poteva bastare poco per cambiare l’esito della battaglia ma, ripeto, l’elemento fondamentale fu l’eroismo di tutti i marinai e soldati cristiani che furono aiutati da Maria nel trovare pace fra di loro e con il destino che li attendeva.

Fu uno scontro di religione o un una guerra fra stati appartenenti a culture e  tradizioni diverse?

Domanda complessa, risposta complessa. Nell’impero ottomano militavano anche contingenti provenienti da paesi cristiani. La Sublime Porta di Istanbul, a fronte di un’obbedienza nei confronti dello stato, tollerava le religioni diverse dall’islam più di quanto non facessero i regnanti cristiani con ebrei e musulmani. Inoltre gli ottomani avevano sempre badato bene di combattere uno stato cristiano alla volta. Se c’era guerra con Venezia c’era tregua on l’impero e viceversa. Le ambizioni ottomane erano quelle proprio di un grande impero ma è innegabile che la spinta religiosa fosse molto forte. Erano gli eredi dell’impero bizantino e la conquista di Roma, “la mela rossa” come la chiamava il Sultano era sempre l’obbiettivo ultimo. Nel 1571 i turchi stavano vincendo una guerra che durava ormai dal 1350. Avevano occupato tutti i Balcani, erano sbarcati in Puglia nel 1480 e nel 1565, c’era mancato pochissimo che conquistassero Malta. E con Malta presa, la Sicilia sarebbe stata completamente scoperta. Nel settembre 1571 la flotta ottomana era in Grecia e avrebbe attaccato l’Italia nella primavera successiva. Cosa poteva impedire ad AlìPascià di sbarcare ad Ancona, per esempio, e di marciare su Roma? Per questo il santo papa Pio V dedicò tanta energia nel costituire la Lega. In definitiva, le ragioni di questa lotta erano geopolitiche ma era altrettanto chiaro che, se l’Italia fosse stata conquistata dai turchi, l’Europa sarebbe divenuta islamica. Tenuto conto della relativa tolleranza ottomana oggi ci sarebbero ancora molti cristiani in Italia ma in uno stato di dhimmitudine, di sottomissione. Si coltiverebbe ancora la vite, si alleverebbero maiali ma se il sultano di turno avesse cambiato idea? Certamente, oggi,  a molti europei la scomparsa della Cristianità dalla storia fa un baffo, e molti sarebbero anche contenti. Ma, con essa, scomparirebbe anche la libertà di coscienza: sarebbe bene che questi signori lo ricordassero, ogni tanto, tenuto conto di come si sono evolute nei secoli le due grandi religioni monoteiste.

Ci sono state nazioni che non si sono unite al “fronte cristiano” e magari hanno simpatizzato per la “coalizione islamica”?

Come ho detto prima, i turchi facevano la guerra a una nazione per volta e, per questo, hanno sempre vinto le guerre, pur perdendo qualche battaglia. Nella coalizione di Lepanto non c’era l’impero germanico, non c’erano i protestanti  e nemmeno i francesi, da sempre partners dei turchi nel Mediterraneo e, in quegli anni, in preda a una crisi politica e religiosa che sfociò nelle grandi guerre di religione fra cattolici e ugonotti. Fu una vittoria dell’Europa meridionale e cattolica che aveva aderito alla Controriforma, la più grande riforma della storia Chiesa.

Cosa ha significato la vittoria di Lepanto per la storia dell’Europa?

Al momento ben poco. L’anno dopo la Lega si sciolse, come prevedibile, perché Venezia fece una pace separata coi turchi, perdendo Cipro e pagando anche un’indennità di guerra. La guerra fu vinta dai turchi, senza discussioni. Gli effetti morali si ebbero subito. Se pensiamo che il Colonna sbarcò a Porto Recanati con gli schiavi liberati per recarsi in pellegrinaggio a Loreto, abbiamo un’idea di quello che fu la liberazione da un incubo. Oggi le cancellate di Loreto sono fatte col ferro di quelle catene. Gli effetti militari si fecero sentire dopo. La flotta ottomana fu completamente ricostruita nel giro di pochi anni ma gli equipaggi, gli arcieri, le truppe scelte non potevano essere addestrati agli stessi livelli di prima. E’ un fatto incontrovertibile che la flotta ottomana non fu più un pericolo per l’Europa anche perché il gap tecnologico fra cristiani e musulmani andò aumentando con gli anni. Lepanto fu davvero l’ultima occasione ottomana.

Fortunatamente, grazie alle mutate condizioni culturali e alle riflessioni conciliari, in particolare quelle contenute nella “Nostra aetate”, i rapporti fra cristiani e musulmani sono più distesi. In tale contesto che senso ha la ricorrenza di oggi?

Per decenni nessuno ha più parlato di Lepanto. Un mito ingombrante per un pacifismo che spesso è diventato irenismo. Poi, dopo l’11 settembre 2001, tutti si sono ricordati che esisteva anche un certo islam, aggressivo e micidiale. Ricordo solo che l’offensiva americana in Afghanistan è cominciata domenica 7 ottobre 2001. Un strana coincidenza davvero. Naturalmente, negli anni del terrorismo islamico, scrittori e giornalisti si sono buttati rinfocolare odi e diatribe. Ma la lotta al terrorismo, come ho descritto nel mio “La quarta guerra mondiale: origine e cronache” (Ares 2007) è stata una guerra civile all’interno del mondo islamico. La stragrande maggioranza delle vittime di attentati sono stati altri musulmani. E sono stati altri musulmani a combattere il terrorismo, pagando con la vita, in prima linea, in un combattimento mortale che noi occidentali non abbiamo nemmeno la costanza di seguire. Diciamoci la verità: ancora una volta la nostra pace l’hanno pagata altri al posto nostro e non ricordiamo più nulla. Ma non è così che può continuare vivere una civiltà. E la nostra, con questa smemoratezza, assenza di coscienza e di senso della storia, prepara la propria fine quando arriverà una prova più dura delle altre. Se saremo minacciati come dopo l’attentato alle Twin Towers reagiremo ancora con isteria da una parte e con la viltà dell’irenismo dall’altra. Ci vuole un altro miracolo di Maria “Auxilium Christianorum” perché cambiamo testa tutti quanti. Grazie dell’attenzione

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ROMA – A margine della presentazione del libro “Dalla Fede religiosa alla Fede teologale” di Mons. Lorenzo Leuzzi avvenuta mercoledì 3 ottobre nella splendida Sala della Conciliazione del Palazzo Lateranense, il Ministro della Pubblica Istruzione ha rilasciato a me e alla collega di Radio Vaticana la seguente intervista. Il titolare di Viale Trastevere, fra l’altro, è tornato sulla polemica sull’ora di Religione, offrendo qualche precisazione.

Signor ministro lei ha appunto detto che le università devono formare gli uomini e le donne migiori della nostra generazione. Allora quanto è importante l’apporto dei docenti verso l’educazione dei giovani in questo momento?

Beh io credo che la scuola debba avere la centralità sugli studenti, ma perché la scuola sia una scuola funzionante nel migliore dei modi deve avere una particolare attenzione alla qualità dei suoi docenti e la qualità dei docenti la la si realizza attraverso una fase di formazione continua del docente nel senso che il docente naturalmente deve essere selezionato all’ingresso, ma deve anche e soprattutto essere seguito in tutta la sua carriera e credo che da questo punto di vista non abbiamo fatto un servizio migliore per il nostro paese. Credo che ci voglia un maggiore impegno. La comunità  dei docenti è estremamente viva di grandissimo valore,  ma dobbiamo prima di tutto ricostruire questa reputazione del docente, del maestro. Credo che sia la prima  cosa che è dovuta. Ci sono molti paesi che su questo tema investono molto ed è il tema culturale prima  di tutto. E poi ci vuole questa continuità nella formazione del docente.

Lei ha sottolineato l’importanza della ricerca e del dottorato quali saranno le novità in merito?

Il dottorato in Italia è nato all’inizio degli anni ottanta con il ministro Falcucci e è rimasto fino ad oggi prevalentemente all’interno dell’università e dei circoli di ricerca nel senso che i dottori di ricerca hanno poi trovato occupazione. Oggi più che mai credo invece che ci sia la necessità di avere un dottorato più aperto alla società agli enti alle professioni  e in quanto tale probabilmente deve essere rivisto il percorso complessivo e noi abbiamo un elemento di grandissimo interesse in questo momento, perché col nuovo regolamento nell’anno accademico 2013 2014 avremo i nuovi dottorati e il percorso sarà un percorso che partirà dall’accreditamento dei nuovi dottorati e poi dovremmo incentivare dei processi di gestione autonomi dei dottorati e poi andremo a valutarli. Credo che in questo sia il percorso migliore quello che può dare i migliori risultati e naturalmente in questa nuova modalità ci sono possibilità di sperimentazione questa sera abbiamo visto come nei prossimi giorni ci incontreremo per avviare un percorso di dottorati congiunti tra le università pubbliche e le università pontificie di Roma. Credo che sia un bel momento anche da questo punto di vista

Il tema di questo incontro è verso l’anno della fede. La fede può aiutare l’educazione dei giovani? I docenti possono aiutare attraverso la fede ad educare i giovani?

Certamente sì,  i due momenti sono quelli della fede e quello del “faciendum” e credo che coniugando la fede con la quotidianità, il rispetto delle regole, il bene comune, una maggiore attenzione agli altri in generale, avremo la possibilità di creare una società migliore e di fare l investimento più  importante che un paese possa fare, quello di formare dei cittadini e delle cittadine che sappiano avere una loro vita di relazione in cui sappiano rispettare gli altri e sappiano rispettare soprattutto le persone diverse da loro

Qualche giorno fa ci sono state delle polemiche a seguito della sua frase sull’ora di religione. Cosa intendeva dire? Intende rassicurare le famiglie dei tanti alunni che si avvalgono?

Io sono stato in molte scuole in Italia dove ormai la presenza di bambini, di ragazzini provenienti da altre culture è sempre più evidente, io, voi lo sapete, ho appena firmato questa accordo con la Cei per cui non è questo il tema. Io ho posto il tema che la scuola debba essere più aperta ad una società diversa, e lo deve essere in tutta la sua quotidianità. Io dicevo, per esempio, la geografia che oggi la si impara attraverso la testimonianza di bambini che hanno papà e mamme che provengono da molti paesi. La storia la stessa religione parlando l’altro giorno con don Leuzzi mi ha detto una cosa in realtà me lo diceva monsignor Nosiglia che nell’ultimo concordato tra il Vaticano e la Siria è previsto che nelle scuole cattoliche gli studenti leggano il Corano e credo che questo dimostri come la Chiesa è una Chiesa particolarmente attenta a quelle che sono le realtà, le domande dei territori le relazioni tra le persone. Io credo che abbiamo una grande opportunità

Ritiene che il cristianesimo debba avere in un discorso scolastico un certo rilievo per la storia che c’è alle spalle, visto che lo stato riconosce il cattolicesimo come parte integrante del patrimonio culturale?

Io credo che naturalmente si debba rispettare la storia del paese: la nostra è una storia ben delineata. La mia attenzione è che nello stesso tempo ci sia una attenzione ad un paese che si sta modificando

Si può parlare di identità e allo stesso tempo accoglienza?

Certamente si. Credo che queste due parole debbano essere coniugate ma coniugate nei fatti credo che sia molto importante per creare una scuola capace di formare i cittadini e le cittadine di domani

Quali sono  le conquiste da quando lei è ministro? Quali sono le cose che maggiormente rivendica come frutto del suo operato?

Io ho provato a sintetizzare quelli che forse sono poi i punti di debolezza del nostro sistema educativo della ricerca e provare un po’ a definire una piattaforma intangibile sulla quale poi sviluppare tutte le azioni e sono 6 punti. Il primo, la valorizzazione della capacità delle persone e la valorizzazione dell’impegno, dove le due cose devono essere connesse. La persona può essere molto capace e poco impegnata e viceversa. Il risultato finale non è quello ottimale. Secondo. Una maggiore apertura. Non ho una lunga esperienza di tipo universitaria e la nostra è una cultura prevalentemente di tipo computativo noi computiamo le persone. Questo ha certamente molto senso in comunità piccole, in comunità ampie probabilmente è necessario una maggiore apertura, mescolamento di sangue. Terzo. Trasparenza. Questo è un paese che ha un po’ paura delle volte che deve condividere dati si vede una certa forma di incertezza. Credo che questo sia un punto essenziale. Quarto. Rispetto dei tempi. Il paese non sa cos’è il rispetto dei tempi. Se noi facessimo una valutazione sul nostro debito pubblico quanto ha influito il non rispetto dei tempi, troveremmo veramente dei dati interessanti sui quali fare una riflessione profonda. Quinto. La semplificazione. Siamo un paese complicato complesso…  se leggiamo un bando abbiamo sempre  bisogno di un giurista accanto a noi e credo invece che abbiamo bisogno veramente di rendere un paese più normale, più semplice meno normato e che le troppe norme rendono meno responsabili le persone. Sesto punto. Il tema della valutazione. Io credo molto in una autonomia responsabile, però come diceva il professore Roberti già nel 1989, il primo elemento è la valutazione. Credo che le azioni che ho fatto nella scuola nell’università nella ricerca abbiamo proprio questo filo rosso ed è questo che mi piacerebbe lasciare in eredità al paese.

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Secondo il pensiero comune la scienza e la fede si oppongono a vicenda. All’apparenza uno scienziato non potrebbe essere credente. Abbiamo sentito su questo argomento il parere di Francesco Agnoli autore del libro “Scienziati, dunque credenti” edito da Cantagalli

Francesco, nel tuo libro parti da un dato: la scienza è nata nell’Europa cristiana e in modo particolare in Italia. Ci puoi spiegare come mai proprio il nostro continente è stato il grembo fecondo per lo sviluppo della scienza?

Sarò breve: perché nascesse la scienza occorreva che la credenza in un Dio creatore sostituisse il politeismo pagano, che porta sempre alla magia e all’astrologia. Occorreva che vi fosse una chiara distinzione tra l’uomo e la natura, e che l’uomo, come è chiaro dal Genesi, fosse riconosciuto e si riconoscesse come “re del creato”. Inoltre bisognava che fosse affermata la bontà del creato tutto, compresa la materia (bontà molto chiara nella visione biblica, ma per esempio assente nelle visioni gnostiche ed orientali). Ancora: occorreva che il Dio adorato fosse un Dio Ragione, Logos, creatore quindi di un mondo intelleggibile, ordinato, e non di una realtà assurda, incomprensibile, impenetrabile

Quali sono stati gli scienziati cristiani più importanti e in quali ambiti della scienza si sono maggiormente distinti?

Direi che sino all’Ottocento, tutti gli scienziati, non uno escluso, sono cristiani. Anche i famosi ateologi alla Dawkins ammettono che era un cattolico sincero anche Galilei. Cristiani erano Keplero e Newton (protestanti), Galvani, Volta e Pasteur (cattolici)….Cattolici, per arrivare all’oggi, sono, per stare al nostro paese, l’ultimo premio Nobel italiano per la fisica, Carlo Rubbia, e l’unica medaglia Fields italiana per la matematica, Enrico Bombieri… Quanto agli ecclesiastici: Niccolò Stenone, padre della geologia e della cristallografia, si fece sacerdote e vescovo; Benedetto Castelli, forse il più intimo amico di Galilei, padre dell’idraulica, era un monaco benedettino; Lazzaro Spallanzani, il padre della biologia, era un sacerdote; Gerolamo Saccheri, padre delle geometrie non euclidee, era un gesuita; padre Francesco Lana de Terzi, padre dell’aeronautica, era un gesuita; Gregor Mendel, padre della genetica, era un monaco; padre Secchi, uno dei padri dell’astrofisica, era anch’egli gesuita… padre Andrea Bina, inventore del primo sismografo moderno, era un monaco, mentre Giuseppe Mercalli, cui dobbiamo la famosa “scala Mercalli” era un sacerdote diocesano… Persino nel campo delle invenzioni più moderne gli ecclesiastici sono super rappresentati: l’abate Chappe è l’inventore del primo telegrafo; il monaco Cassinelli, del primo fax (detto pantelegrafo); il padre scolopio Eugenio Barsanti dell’Addolorata del motore a scoppio…. Potrei davvero continuare a lungo…

Secondo l’opinione comune la teoria eliocentrica e quella del Big Bang sono state o sono in contrasto con la fede cattolica, ma le cose non stanno così, vero? Sono sciocchezze, senza fondamento. Copernico era un laureato in diritto canonico, ed un ecclesiastico. Il suo capolavoro, De revolutionibus orbium coelestium, era dedicato al papa Paolo III (del resto i più celebri osservatori astronomici italiani sono nati da uomini di Chiesa, o con il contributo della Chiesa, a partire da quello più antico, quello di Bologna, nello stato pontificio); quanto al big bang, fu teorizzato dal sacerdote gesuita belga, Georges Eduard Lemaitre… a lungo osteggiato proprio perché la teoria del big bang sembrava ad alcuni troppo biblica (nel mio libro dedico ampio spazio a questo tema)

Come è nato l’equivoco sul rapporto fede-scienza?

E’ nato molto avanti, a partire da alcuni illuministi materialisti settecenteschi; è poi stato rinverdito dal positivismo (Lombroso, teorie del cosiddetto “razzismo scientifico”, antropometria…) e soprattutto dalle ideologie del Novecento: sia Mussolini (soprattutto in gioventù), che Hitler, che Lenin e Stalin, erano fermamente convinti di rappresentare la modernità, contro la Chiesa oscurantista e nemica della scienza. Del resto sia il marxismo che il nazismo si consideravano dottrine “scientifiche” (mentre erano solo riduzionismi, in quanto il primo riduceva tutto a materia; il secondo tutto al sangue ed al suolo, quindi, ancora, alla materia…). L’unico scienziato ucciso dalle nostre parti, fu Lavoisier, dai laicissimi giacobini; il paese in cui invece la persecuzione agli scienziati fu sistematica, fu la Russia: tutti coloro che si rifacevano a Mendel in biologia e a Lemaitre, in astronomia, venivano osteggiati, privati delle cattedere, e talora uccisi…

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Benedetto XVI sta visitando in questi giorni il Libano con la speranza che la sua presenza possa essere un contributo per la pace in medio oriente e un conforto per i tanti cristiani che in queste terre vivono in situazioni di estrema difficoltà, se non addirittura di vera e propria persecuzione. Abbiamo parlato di questa condizione dei cristiani con Rodolfo Casadei che ha conosciuto da vicino queste realtà

Rodolfo Casadei, nato a Forlì nel 1958, laureato in filosofia nell’Università di Bologna nel 1982, coniugato con 2 figli, è giornalista professionista dal 1991. Ha lavorato come redattore nel mensile Mondo e Missione fra il 1985 e il 1998, occupandosi dei temi del sottosviluppo e dell’Africa, dove ha compiuto numerosi viaggi. Dal 1998 è inviato speciale del settimanale Tempi, per il quale ha svolto reportage nei maggiori paesi europei, in Medio ed Estremo oriente e in America latina. Suoi articoli e servizi su temi dell’attualità internazionale sono apparsi su Avvenire, L’Osservatore Romano, Sette del Corriere della Sera, Il Giornale, L’Eco di Bergamo, Jesus, Il Sabato, Trenta Giorni, Tracce, sul mensile Usa Inside the Vatican. Attualmente collabora coi quotidiani Il Foglio e Il Giornale del Popolo (CH). Ha narrato molte vicende di persecuzione e di speranza in “Tribolati ma non schiacciati” (Lindau)

Quanti paesi ha visitato per svolgere il suo lavoro?

Tanti. Quando lavoravo con padre Piero Gheddo a Mondo e Missione ero l’incaricato per l’Africa, al settimanale Tempi sono l’Inviato Speciale internazionale. Sei-sette missioni all’anno le faccio normalmente. Non è tantissimo, ma la qualità è più importante della quantità. Poi ci sono gli inviati più bravi, che tengono insieme l’una e l’altra cosa.

Lei è sposato e ha dei figli. Cosa la spinge a compiere i suoi viaggi nonostante i molti rischi connessi con la sua attività di giornalista di frontiera?

Sono sempre prudente, quando mi muovo ho buoni appoggi sul posto. Ci sono mestieri molto più pericolosi del mio: muratore, operaio, contadino, agente di pubblica sicurezza, ecc. I miei familiari sanno che sono prudente e sono d’accordo con me che la vita non vale per sé, ma per lo scopo che ha, per la missione che è data a ciascuno: dal disabile paralizzato in un letto al pilota di aereo che fa il giro del mondo tutte le settimane. Sono giornalista, sono cristiano. Quello che faccio è la logica conseguenza della mia identità.

In quale paese le condizioni di vita dei cristiani sono maggiormente difficili?

Fra quelli che ho visitato, l’Iraq.

Quale è l’animo dei cristiani e con quali sentimenti affrontano tutte le difficoltà che incontrano?

Alcuni di loro sono persone comuni, che reagiscono in base all’istinto di sopravvivenza: mi chiedono se posso aiutarli ad abbandonare il paese, se posso fare loro avere un visto per l’Europa. Altri invece approfondiscono la fede proprio sotto la pressione della persecuzione. La persecuzione diventa una chiamata alla santità, alla quale rispondono positivamente.

Fra le tante storie di sofferenza che ha raccontato, quale le è rimasta più impressa nel cuore?

Mi hanno colpito tutte. Ma se devo ricordarne una, mi viene in mente Surur, una ragazza cristiana di Baghdad. L’hanno violentata e uccisa dentro casa, a pochi metri dai suoi genitori. Si rifiutava di cedere alle minacce di chi voleva imporle di portare il velo a scuola. Aveva smesso di andare a lezione per restare coerente con la sua coscienza e per non creare pericoli a chi frequentava la scuola. Era una ragazzina di 16 anni. Spero di incontrarla nell’eternità.

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ROMA – A partire da giovedì 11 ottobre l’Istituto Superiore di Scienze Religiose che fa capo alla Pontificia Università “Regina Apostolorum” di Roma darà inizio ad un corso dal titolo “Pregare con le icone”. Abbiamo chiesto a Padre Marcelo Antonio Bravo Pereira LC, preside dell’Istituto di illustrarci i contenuti più importanti che il corso offrirà agli studenti.

Padre Marcelo Antonio è nato il 15 maggio 1970 a Santiago del Cile, il 24 dicembre 2003 è stato ordinato sacerdote e dal 2011 è Preside dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose

Il corso si aprirà con delle lezioni dedicate alla “teologia della bellezza”. Ci può spiegare il senso di questa espressione?

La teologia della bellezza, cioè fare una riflessione su Dio come Bellezza parte per noi cristiani dal mistero dell’Incarnazione. Una definizione di bellezza ci è stata tramandata da San Tommaso d’Aquino. La bellezza è infatti “quod visum placet”, ciò che essendo visto piace. La bellezza consiste in una certa armonia delle parti in un insieme. Per esempio, l’armonia che c’è nella contemplazione di una scogliera bagnata dalle onde con in fondo il cielo diafano illuminato dal sole. Come vede tutto fa riferimento alla sensibilità. In quale senso si può dire che Dio è bello se non è sensibile? Ecco qua che con l’Incarnazione del Verbo in Gesù di Nazareth l’eterno si fa sensibile. “Cerco il tuo volto Signore”; questo desiderio del popolo d’Israele si fa realtà nel volto umano del Figlio di Dio. Lui è il più bello tra i figli degli uomini. Nel suo aspetto fisico, nel suo volto, si scorge una bellezza più grande, la bellezza spirituale, la bellezza di un amore incondizionato che lo porta alla donazione totale di sé nella croce. L’icona s’inserisce in questa contemplazione del volto di Cristo. Chi si accosta a un icona cerca il vero volto di Gesù. L’iconografo è un credente prima di essere un artista. È un ricercatore della bellezza di Dio fatto uomo.

Può spiegare ai nostri lettori quali sono le più importanti differenze fra la pittura sacra occidentale e le icone?

Bisogna partire da una premessa, leicone non appartengono alla sola tradizione orientale. In occidente, soprattutto a Roma possiamo ammirare icone già dal VIII secolo. Basti pensare all’icona acheropita della Scala Santa presso il Laterano. Quando la Chiesa era unita e respirava con i suoi due polmoni – a dire di Giovanni Paolo II – c’è stato un interscambio artistico e religioso molto fecondo. Inoltre grandi artisti – e grandi credenti – occidentali si ispirarono a forme della tradizione iconografica occidentale e orientale. Duccio di Buoninsegna e Giotto seguono canoni e forme proprie delle icone. Insomma, l’icona è patrimonio di tutta la cristianità.

Detto questo si potrebbero trovare alcune differenze. L’icona tende a spiritualizzare le figure. Lecolloca in uno spazio aureo di grande solennità. Nell’icona il Verbo incarnato con la sua divinità viene a noi e ci interpella. La pittura sacra occidentale per contro tende a umanizzare la divinità, a farla concreta. I volti, l’espressività del corpo e lo spazio indicano che veramente il Verbo è della nostra natura. L’icona, inoltre, è un’immagine che ci contempla anziché noi contempliamo l’icona. Si parla qui di “prospettiva rovesciata”. Nella prospettiva normale della pittura occidentale il punto di fuga è nel quadro e da lì si apre a noi. Nell’icona accade il contrario: la divinità con la sua apertura viene incontro al punto singolare, cioè allo spettatore, all’uomo che si apre alla fede.

Finalmente, la pittura religiosa occidentale porta il segno caratteristico del pittore. È una creazione. L’iconografo non è creativo, non immagina e disegna secondo la propria ispirazione. Lui cerca, non l’immagine soggettiva del Cristo o della Madonna. Lui cerca il vero volto di Cristo. Ecco perché le icone tentano di riprodurre sempre e con fedeltà i modelli antichi, perché più vicini al vero volto del Signore.

Quali nozioni sono indispensabili per avvicinarsi al mondo delle icone?

Innanzitutto la fede. L’icona ha una finalità mistagogica, cioè, di avvio verso il mistero trascendente di Dio. Chi si accosta all’icona deve credere fermamente nel Dio fatto uomo. Deve avere una sensibilità contemplativa e di ascolto, perché davanti ad un icona non si deve andare a imporre i propri pregiudizi religiosi o artistici, ma a contemplare, a vedere, a toccare l’orlo del mantello del Signore.

Nel corso “pregare con le icone” si forniscono conoscenze teoriche sulla tecnica delle icone, la preparazione della tavolozza, sulla storia delle icone, ma il nucleo centrale e il traguardo principale è insegnare a pregare con questi oggetti sacri che la tradizione cristiana ha conservato e custodito gelosamente.

In che modo le icone sono legate alla preghiera e alla liturgia?

Le icone sono strettamente legatealla liturgia. Basta entrare in una chiesa bizantina per ammirare l’iconostasi, cioè la parete che separa la navata dal “bema” o presbiterio. Secondo il celebre aforisma di san Leone Magno, “ciò che era visibile nel nostro Redentore è passato ai suoi misteri”, è nel mistero sacramentale e liturgico dove il Verbo incarnato si fa vicino a noi con la sua potenza redentrice e dove l’uomo si unisce a Cristo, sommo Sacerdote, e ai cori angelici per rendere la lode e la gloria al Padre, nello Spirito Santo. L’incontro con l’icona è un atto liturgico perché riproduce nella concretezza dell’esistenza umana la lode e la gloria che la creatura deve al suo Creatore.

Quali sono e dove si trovano le più importanti icone presenti in Italia?

L’Italia ha un patrimonio iconografico di valore incalcolabile. Del VI s. è l’icona della Vergine con il Bambino (una“odighitria”, cioè che indica Gesù come via) custodito alla Chiesa di santa Maria nuova, a Roma. A Santa Maria in Trastevere c’è un capolavoro iconografico, la Madre di Dio in trono o Madonna della Clemenza (“glycophilousa”), senza dimenticare icone di valore storico-religioso come la “Odighitria” davanti alla quale sant’Ignazio di Loyola e la sua compagnia fecero voto alla Madonna. In Italia si potrebbero citare la basilica di san Marco a Venezia, Ravenna, e un po’ ovunque.

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